«Puoi darmi del tu, Vince. E puoi chiamarmi Nicole, te ne prego, altrimenti mi fai sentire vecchia». Lo seguii per tutto il percorso, seguendo con lo sguardo qualsiasi piccolo dettaglio, e mi stupii di non vedere alcun detenuto fuori dall'edificio come di solito accadeva.

All'entrata Vince mi tolse il cappotto con cura e lo posò insieme a quello di tutti gli altri in uno stanzino, rigorosamente chiuso a chiave. Mi presi qualche minuto per osservarlo: poteva avere non più di quarant'anni, forse qualcosa in meno, e li portava in modo molto giovanile. Aveva un accenno di barba bionda, una tonalità un po' più scura dei suoi capelli, e i suoi occhi non avevano una sfumatura particolare, ma erano i suoi lineamenti e la sua cura personale a renderlo un bell'uomo. Il suo profumo era incredibile.

«Vieni, ti stanno aspettando». Indicò con la testa le scale che portavano giù, probabilmente alle celle, una volta che i detenuti superavano i controlli.

Mi fermai di scatto, rischiando di cadere in avanti a causa degli stivali alti che avevo poco furbamente scelto, e per questo mi aggiustai la finta gonna che indossavo. In realtà da dietro si vedeva che fossero dei pantaloncini. «Stanno?».

«Sì». Aggrottò la fronte. «I detenuti sono stati avvisati del tuo arrivo e il direttore ha scelto di presentarti a loro immediatamente, così da evitare brutti inconvenienti. Capisci che intendo, non è un lavoro nuovo per te da quello che so».

Inspirai, nascondendo un moto di panico con un sorriso. «Non lo sapevo ma sì, concordo con la scelta del direttore. Ti seguo».

Aprì il cancello con una chiave presente nel suo mazzo, pieno zeppo di tante altre, e mi fece passare avanti per poterlo chiudere. Ma, quando provai a scendere le scale di metallo arrugginite e poco sicure con tutta l'attenzione che riuscivo a racimolare per non rompermi qualche osso, Vince mi agguantò delicatamente per il gomito e mi tirò alle sue spalle.

«Vado prima io, Miss Nicole». Rispose al mio sguardo confuso, iniziando a battere le chiavi sul metallo per fermare il vociferare che si espandeva fra i detenuti.

Erano disposti in due file, uno di fronte all'altro, come dei bravi soldatini. Avevano le braccia lungo i fianchi, indossavano delle tute blu che avevano visto giorni migliori, e il 70% di loro aveva delle ferite sul viso. Alcuni portavano delle smorfie, come se il solo stare in piedi gli facesse male, e altri erano così pallidi che mi chiedevo come facessero a non essere già svenuti.

Quattro guardie in entrambi i lati girovagavano fra di loro, con i manganelli in vista, e colpivano con forza chiunque non avesse una postura composta. Ingoiai un boccone amaro, tenendo ben salda la mia "maschera" sul viso.

«Cari detenuti, il motivo per cui siete qui non è un capriccio come può sembrare, anche se mi fa piacere vedervi così composti». Si udii qualche volgare commento, che venne zittito sul nascere da una manganellata. «Il motivo è che negli ultimi mesi, devo proprio ammetterlo, le cose sono andate al collasso. Ho tentato con tutti i miei mezzi di sistemare le cose, a volte anche con una violenza inaudita, ma ho capito che il vero problema risiede nella vostra psiche e non ho le qualità giuste per cercare di capire cosa vi passi per la testa. Perciò ho pensato di cercare qualcuno che ne capisse più di me». Mi indicò con un teatrale gesto della mano e le teste di tutti i detenuti scattarono verso di me.

Scesi l'ultimo gradino con un particolare calore alle guance, ma non abbassai mai lo sguardo sul pavimento per evitare di far credere loro di avere anche solo una chance di sottomettermi o farmi paura. Incrociai le braccia e attesi, spostando lo sguardo sulle celle per cogliere dettagli che avrebbero potuto essermi utili.

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