2 - La belva è fuori.

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Stefan:

Rimasi seduto a fissare per un momento il treno che correva via, poi, ripresi lucidità, tastai la tasca sul retro dei pantaloni in cerca del cellulare, pregando che non fosse rotto.

A parte, lo schermo incrinato, sembrava a posto, ma, una frazione di secondo, prima di iniziare a comporre il numero di Damon, mi bloccai, un ricordo premeva per essere focalizzato: Klaus che si rigirava il mio telefono fra le dita e me lo lanciava, noncurante, esclamando sprezzante: «Ehi schiavetto! L'hai dimenticato in camera mia, per scolarti la cameriera del piano, ha suonato per un po'...sbarazzati della tua vecchia vita! Sai che non puoi indugiare ancora in quella, vero? Sempre che tu voglia avere dei ricordi: viventi...! ».

Avevo afferrato il mio telefono al volo, per lanciarlo, a mia volta, dentro all'acquario decorativo della suite, ribattendo: «Detto-fatto, socio!».

«Ah Steph, mi piaci! Hai stile...ma attento. Lo status di socio te lo devi guadagnare. Che dici, andiamo a berci qualcosa?» «Perfetto, sai che non ne ho mai abbastanza» avevo ghignato di rimando.

Più tardi, recuperando l'IPhone, con la custodia subacquea, cercai di convincermi che l'avesse bevuta, ma non ne fui mai sicuro.

Adesso però, ero più guardingo, poteva aver manomesso l'apparecchio in vista dei suoi piani.

Sfilai la scheda e la frantumai sotto le suole dei miei stivaletti.

Poi feci fare la stessa fine al telefono, fra le mie dita, sempre più forti.

Iniziai a correre in mezzo alla sterpaglia, in direzione del puzzo vago di smog che sentivo, quando ero uscito dalla carrozza merci, avevo dato un occhiata al display fissato al soffitto del corridoio della prima classe: alla stazione di Knocksville mancavano cinquanta minuti, avevo parlato con Klaus per circa mezz'ora, quindi dovevo essere vicino al centro città. Ero un arma ipnotica potente, sarebbe stato facile trovare un telefono.

Pregai che Klaus, non avesse, in questi preziosi minuti che mi occorrevano per attuare i miei piani, la compagnia di streghe compiacenti, perché, la ciocca di capelli che mi aveva strappato, poteva facilmente scatenare una visione sui miei propositi del momento, e se, fosse accaduto qualcosa di brutto, a chi amavo, sarei morto davvero.

Dovevo parlare con Damon, in fretta, prima di partire in cerca di Kath.

Mentre il vento, leniva un po' dalla mia pelle, la sensazione d'ansia mista ad angoscia, cercavo di elaborare un piano preciso, ma avevo anche i sensi scompigliati da altri bisogni.

La tigre, ormai ammaestrata, reclamava, e faticavo a tenerla buona. Mentre sfilavo fra gli alberi e i cespugli, ogni presenza mi era svelata e, soprattutto, quella del sangue, il nettare che, prometteva a i miei sensi assuefatti, un ristoro che avrebbe cancellato la paura, l'incertezza, facendomi sentire più sicuro, più forte e insensibile ai tormenti interiori.

Non ero ancora in crisi di astinenza, ma ero terrorizzato di finirci.

Dovevo credere di non essere ancora dipendente, sennò, mi sarei perso fra la colpa e l'oblio della mia ferocia, smarrendo per preziosi istanti i mei propositi.

Spaventai un coniglio che, non riuscì a sfuggirmi, senza neanche smettere di correre lo afferrai e dissanguai in un attimo, mi fece l'effetto di una bibita schifosa e calda. Orribile.

Strinsi i denti che, scattarono ritraendosi, fino a tornare umani, scagliai via la bestiola: un mese fa l'avrei seppellita con delicatezza. Adesso non ero più io, ma fare scempio di un animale indifeso, era meglio che farlo del contadino che, a un chilometro, raccoglieva sereno, e ignaro della mia pericolosissima presenza, le sue arance.

Stefan Odyssey||Steferine/DelenaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora