03. Il potere di un nome

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Fui talmente distratta dai miei pensieri che mi resi conto che il caffè fosse ormai freddo solo quando ne ingurgitai un sorso e storsi di riflesso il naso.

Chiariamo, io bevevo caffè di continuo, in qualsiasi maniera, mi bastava soltanto che fosse caffè. E senza quello ritenevo ragionevole non cominciare la giornata, men che meno permettere agli ingranaggi del mio cervello di sferragliare.

E quella mattina la situazione non era delle migliori. Mio padre aveva ricevuto la telefonata dalla centrale – non sapevo come avessero fatto ad avere il suo numero di telefono – e mi aveva praticamente buttata giù dal letto.

Dovevo testimoniare.
Di nuovo.
E poi magari sarei riuscita a vedere Isaac.
Non per chissà quale istinto cavalleresco, in realtà volevo soltanto indagare sul suo aggressore.

La notte precedente, infatti, dopo quell'episodio spiacevole, non avevo chiuso occhio. Ero rimasta sveglia dalle due del mattino e avevo riposato soltanto quando il sole aveva cominciato a sorgere.

Ero sicura di aver chiuso la finestra prima di andare a dormire, eppure l'avevo trovato aperta dopo aver sognato qualcuno dentro la mia stanza.

E quel qualcuno mi aveva chiamata Sunny, e dannazione soltanto la mia famiglia conosceva quello stupido soprannome.

Non sapevo più a cosa credere. Per quanto cercassi di convincermi che fosse stato tutto un sogno e che magari la finestra fosse chiusa male e si fosse aperta a causa del vento che aveva soffiato fuori, una parte di me, quella spinta da una paura primordiale che modellava i pensieri, cominciava a credere che la notte precedente, in quella stanza, non fossi sola.

Tuttavia, ciò non spiegava il soprannome. E non spiegava nemmeno come diamine facesse a conoscere il mio nome. Tantomeno a sapere dove vivessi.

Doveva essere per forza un sogno. Non c'era altra spiegazione plausibile.

«Dana, dobbiamo andare.» La voce di mio padre, ora fermo sulla soglia della cucina, mi provocò un sospiro.

Non erano neanche le nove del mattino e, a parte papà e me, tutto il resto della famiglia dormiva ancora. Kyle ed Elsie avrebbero cominciato la scuola il giorno successivo, e mia madre invece avrebbe ripreso a lavorare in ospedale. Se gli agenti mi avessero impedito di vedere Isaac per chissà quale motivo, avrei potuto usare mia madre per scoprire in che reparto si trovava. Non era esattamente un piano fattibile, ma ero sicura che mia madre avrebbe collaborato. O almeno ci speravo.

«Settembre non è neanche iniziato e qui c'è già freddo», borbottai, dopo aver lasciato la tazza del caffè sul tavolo. Avrei fatto fermare papà in qualche bar e ne avrei preso uno caldo prima di arrivare in centrale.

«Non siamo più a San Diego», rispose lui, con l'accenno di un sorriso.

«Me ne sono accorta.»

Nonostante la giacca in pelle a coprirmi, mi pentii amaramente di aver indossato una gonna senza collant sotto nel momento stesso in cui misi piede fuori casa, però non avevo la minima intenzione di rientrare dentro e cambiarmi, d'altronde ci saremo mossi in auto.

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