Domani sarò alba

CuoreAdElica

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𝗖𝗼𝗺𝗽𝗹𝗲𝘁𝗮 ✔️ 𝙽𝚎𝚠 𝙰𝚍𝚞𝚕𝚝 💋 1/2 Alba ha il tramonto stampato in faccia. Capelli rossi, occhi ver... Еще

Cast
Albero genealogico
Chi sono Elia e Isabella?
MP3 di Alba
Prologo
Alba odia i capelloni - Parte Uno
1. L'isola dell'Amore
2. Uno sconosciuto nella Villa
3. Favori e debiti
4. Ottimo ascoltatore, pessimo argomentatore
5. La briscola è uno strumento di difesa
6. Ad ogni uomo il vestito che si merita
7. La Libera
8. Il pescatore e la monaca - Pt. 1
9. Il pescatore e la monaca - Pt. 2
10. A caccia di fiori e pranzi stravaganti
11. Il monolocale
13. Di mare e di stelle - Pt. 1
14. Di mare e di stelle - Pt. 2
15. Ne vale la pena?
16. Una canzone tua, nostra
17. Essere visti per chi siamo davvero
18. Sei dove non sono io
19. Le scritte sui muri rimangono in eterno
20. Ci viviamo
21. Sii prudente con questo tuo cuore
22. Musica jazz, sigarette e amici di famiglia
23. Notti d'agosto al sapore di mare
24. Ciao amore, ciao
Non è mai abbastanza - Parte due
25. Il tempo passa
26. Bisnonna Silvia, sei eterna
27. Resta
28. E basta
29. All'ombra di un tramonto
30. Luce dei miei occhi
31. Ne è valsa la pena
32. Nuovo inizio
33. Roma, Amor
Epilogo
Ringraziamenti
Sogno - EXTRA
Scappare - EXTRA

12. Sole, spiaggia, sesso

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CuoreAdElica



ALBA
Ischia, estate.


Mi sei scoppiato dentro al cuore,
all'improvviso.
All'improvviso, non so perché
Non lo so perché, all'improvviso
Sarà perché mi hai guardato
Come nessuno m'ha guardato mai
Mi sento viva
All'improvviso
Per te.
— Mi sei scoppiato dentro al cuore di Mina.










Bollino rosso.
🔴












Schiusi gli occhi, sospirai. Aggrottai piano la fronte, la mia mano s'infilò sotto il cuscino, piegai la testa all'indietro.

I suoi capelli si strofinavano all'interno della mia coscia. Baciava con impeto e dolcezza la mia intimità, il palmo della sua mano a intrufolarsi sotto la maglietta ad accarezzarmi i fianchi e la pancia.

«Riccardo...», sussurrai, ansante, aprii gli occhi e spalancando la bocca priva di respiro a causa della sua lingua che torturava delicatamente il centro pulsante del mio piacere. «Dio...»

Rapidamente, con l'altra mano gli tirai appena i capelli. Continuò con quella giravolta di spinte ed io mi persi nel soffitto bianco e il mare celeste dietro il vetro della finestra. Gemetti quando le sue dita entrarono dentro di me, procurandomi dei brividi lungo la spina dorsale. In uno scatto spasmodico mi cedetti al piacere, lasciandomi andare nel lenzuolo con il respiro affannato e irregolare.

Riccardo s'insidiava piano nei miei pensieri come un diavolo persuasivo, soggiogava le mie emozioni e dannava ogni pensiero che lo riguardasse.

Mi passai una mano tra i capelli, deglutendo a stento. Quando riaprii gli occhi Riccardo sorrideva beffardo sul mio volto paonazzo e ancora assonnato. Mi accarezzò le cosce con le sue mani calde, con voce travolgente disse: «Buongiorno, principessa.»

«Stai zitto», sussurrai, alzai la nuca dal cuscino e chiusi le labbra sulle sue.

Una voragine mi aprì lo stomaco, gli circondai il collo con un braccio e lo spinsi su di me, Riccardo mi abbracciò per la vita, stringendomi a sé. Inspirò il mio odore e sospirò sulla mia bocca mentre gli accarezzavo il mento.

«Come...», sussurrai, dandogli un altro bacio, «Come ti viene in mente di farmi una cosa del genere?»

«Volevo darti un bel risveglio», ammiccò un sorriso, togliendomi i capelli dalla guancia.

«Di solito non è così che una persona si sveglia dopo aver dormito con qualcuno», ridacchiai, strofinando il naso contro il suo, lentamente, «Sai... ci sono i pancake, fiori e caffè, di solito.»

Mi diede un altro bacio, i ciuffi dei suoi capelli a formare una tenda d'oro tra i nostri occhi, trafilati dalla luce del sole.

«Ci sono anche quelli», alzò le sopracciglia con soddisfazione, mi lasciò un bacio sullo zigomo, «Hai fame?»

«Un po'», mi stirai le braccia quando lui si alzò da me, facendo in modo che il Sole mi baciasse la pelle e invadesse le lenzuola.

Mi tirai sù, mi tenni sul gomito, il palmo della mano spiaccicato sulla guancia. Lo guardai mentre si rivestiva: i muscoli della schiena a creare un mosaico di linee congrue, definivano una forza naturale sulle sue spalle. I capelli ricci cadevano sulla nuca in maniera scombinata, sembravano morbidi solo alla vista.

Navigai con gli occhi su un tatuaggio piccolo, nascosto in fondo alla schiena, sull'orlo del boxer. «È una costellazione quella?»

Lui si voltò verso di me, dopo essersi infilato il colletto della maglia. Poi guardò il tatuaggio piegandosi leggermente, si infilò completamente la maglietta dopo aver annuito, poi disse: «Sì. La riconosci?»

Annuii. «È quella di Ercole.»

«Come mai la conosci?»

«Mio padre lavora molto con queste cose. Ha lavorato per un'agenzia internazionale sulla creazione di capsule spaziali per anni. A casa a Roma abbiamo libri solo su 'sta roba», mi portai una ciocca dietro l'orecchio.

«Tuo padre mi sta simpatico», commentò, infilandosi un pantalone preso da uno dei cassetti di un comò. Prima una gamba, poi l'altra. «Sembra uno con cui puoi parlare di tutto. Mi piacciono le persone come lui.»

Sorrisi. «Anche a me. Capisco perché la mamma si è innamorata proprio di lui da giovane. Era un uomo bellissimo, non che ora non lo sia, però da ragazzo aveva quel fascino inafferrabile», dissi con un sospiro. «Lo sai che si sono conosciuti qua, ad Ischia?»

«Ah, sì?», chiese puramente curioso.

«Sì. Mio padre aveva un debole per lei.»

«Non lo posso biasimare», rispose con un'espressione compiaciuta.

Gli lanciai un'occhiata divertita. Lui afferrò delle chiavi sulla penisola della cucina, «Dove vai?»

Lui mi venne di nuovo incontro, poggiò un ginocchio sul letto e, prendendomi il mento, mi diede un bacio veloce sulle labbra. «Vado a prenderti la colazione, principessa. Keesi mi permette di prendere qualcosa.»

«Non ci mettere troppo.»

«Torno subito. Tu fai quello che vuoi.»

Uscì dal monolocale. Aspettai qualche secondo e decisi di alzarmi. Afferrai i miei vestiti che, probabilmente, Riccardo aveva messo sulla poltrona. Andai al bagno, era pulito e profumato di vaniglia, di Riccardo. Cercai un asciugamano da utilizzare dopo aver fatto una doccia.

Legai i capelli in una coda alta e sistemata. Indossai gli slip, misi i pantaloncini e infilai una sua maglietta.

E, visto che non avevo molto da fare, rovistai tra le sue cose. Sapevo fosse sbagliato, ma pensai di trovare qualcosa che mi avesse fatto conoscere di più Riccardo.

Tra i cassetti aperti trovai altri fogli, quaderni e, a mia sorpresa, un album di fotografie. Sul dorso di esso vi era scritto: Mio piccolo, dolce Riccardo. Decisi di sfogliarlo, sulla prima pagina c'era una dedica che citava: "Mio bel bimbo, sei ancora nella mia pancia, ma sappi che ti amerò con tutta me stessa. So che non sarà facile, per te e per me, ma sappi che sarò sempre la tua mamma. Tuo padre ti vorrà bene, angioletto mio. Sarai il più bello di tutti quanti. Non so ancora come chiamarti, ma sono indecisa tra Federico, e il nome di tuo nonno: Riccardo. In ogni caso, sappi che sarai amato, ci proverò ad amarti quanto basta.

Ciao, amore di mamma.

Mio dolce bambino."

Era una scrittura delicata, che pendeva di lato.

Sorrisi, quando sfogliai la pagina vidi la primissima foto di Riccardo. Era avvolto in un fagottino celeste, i suoi capelli biondi sembravano uno sprazzo di Sole sul suo capo. La pelle rosata e gli occhi appena aperti emanavano già una luce immacolata. Le sue labbra erano piccolissime, come petali di rosa spiccavano sulla sua chiara carnagione. In basso c'era scritto: "Prima foto del mio Riccardo, prima volta a casa sua!"

Girai ancora. Una foto orizzontale ritraeva Riccardo in braccio ad un uomo anziano. Sarà stato il nonno. Egli aveva una birra in una mano, nell'altra mano stringeva le gambe di un piccolo Riccardo dai folti capelli ricci, schiacciati da un berretto a visiera messo al contrario. Aveva gli occhi stretti grazie al sorriso contento e gioioso che albergava sul suo volto. Le braccia spalancate in aria, come se stesse urlando, e attorno a loro milioni di persone che osservavano il campo da calcio. Erano in uno stadio, uno stadio grandissimo. Lessi la descrizione: "Riccardino a sette anni, con il suo nonno Riccardo. Stadio San Paolo. Prima partita del Napoli!"

Sfogliai ancora. C'erano diverse fotografie. Un'altra che mi colpì fu una con un ragazzino dai capelli castani e lisci. Erano in un campo sportivo, l'erba era corta. Le scarpe che indossavano mi suggerirono fosse un campo da calcio. In mano avevano un trofeo dorato. Entrambi avevano una tuta monocolore bianca, riconobbi il sorriso trionfante e sereno di Riccardo. Aveva un viso innocente, puro. La scritta diceva: "Riccardo a dodici anni, con il suo amico Angelo. Terzo trofeo del campionato. Il mio bel campione preferito."

Sfogliai ancora. Sorrisi ad altre paio di foto in cui Riccardo sorrideva e diventava più grande, più bello. Una foto mi tolse il respiro. Riccardo si trovava nello stesso stadio di qualche foto prima, solo più maturo. Aveva evidenti muscoli sulle braccia scoperte dalla canotta azzurra. I capelli ricci gli cadevano sulla fronte leggermente umidi, il suo braccio a circondare le spalle di un ragazzo. Rideva, nella foto. Rideva che era una meraviglia. Le labbra carnose e di un rosa tenue erano distese in un sorriso ampio, mostravano un sorriso che aveva il potere di sciogliere il cuore di chiunque. Gli occhi sottili, ma trasmettevano un carisma da pelle d'oca. Il braccio a mezz'aria, in una posizione di trionfo, mentre dietro di loro c'erano bandiere issate con striscioni, quella posa permetteva di far scorgere anche un lembo di pelle abbronzato del ventre. Angelo, accanto a lui, assumeva la stessa posa con un sorriso altrettanto gioioso. La descrizione diceva: "Coppa Italia del Napoli. Riccardo e Angelo al San Paolo. Il mio Riccardo a 17 anni."

Mi stupii nel guardare le foto di Riccardo alla mia età. Era davvero il ragazzo più bello che avessi mai conosciuto. Nella foto dei suoi diciott'anni sprigionava una meraviglia straripante. In mezzo a un gruppo di ragazzi, lui spiccava con quei ricci biondi come un dio. Le braccia forti a stringere due calici di spumante verso l'alto, a torso nudo nel viale in cui eravamo passati assieme. Ricordai che Riccardo mi avesse detto ch'era nato a novembre, di conseguenza doveva fare molto freddo, dunque arrivai a constatare che lo avessero inzuppato di champagne e per questo si era tolto la maglia, e, anche per questo motivo, era l'unico mezzo nudo assieme ad altri due, probabilmente vittime della medesima cosa.

"Tanti auguri al mio uomo. Al mio ragazzo di diciotto anni. Hai un cuore grande, amore di mamma. Spero tu non lo perda mai, e se lo devi perdere, perdilo per una donna che riesca a farti sorridere e amare la vita come sei solito fare. Non lasciarti rovinare dalla crudeltà del dolore, spero tu conosca il sapore dell'amore e del futuro fantastico che ti aspetta. Sii leone in questa giungla, amore mio, sei forte come solo Dio sa.

Mi hai reso una mamma fiera di crescerti.

Adesso va' per la tua strada, mio bambino, e renditi Re del tuo destino.

Ciao, amore di mamma.

Ti amo."

Mi asciugai una lacrima. Osservai quella foto e chiusi l'album. Lo riposi con delicatezza al suo posto; mi accorsi che, sotto all'album, ci fosse una bustina già aperta che non avevo visto, come se fosse stata nascosta apposta.

Con curiosità la aprii, estrassi da essa una foto. Era la foto di un uomo. Di un uomo che somigliava tantissimo a Riccardo. Aveva il suo sorriso potente e i capelli biondi e brizzolati, una barba curata. In bocca un sigaro acceso. Vicino a lui un bambino, un piccolo bambino. Forse Riccardo avrà avuto sei o cinque anni, non sorrideva come nelle foto che avevo visto, era un sorriso più tirato, quasi a disagio.

Girai la foto, notando ci fosse scritta una cosa.

"Ciao, Riccardo. Papà ti aspetta a Scampia."

Con un sospiro riposai anche quella.

E, quando chiusi il cassetto, sentii i passi di Riccardo attraversare il corridoio. Mi sedetti sul letto a gambe incrociate.

«Guarda qua che t'ho trovato», esordì entrando in camera con un mazzo di fiori.

Sgranai gli occhi, alzandomi di scatto. «Come...», mormorai, «Dove li hai presi?!», gli sorrisi, avvicinandomi. Osservai i tulipani che emergevano dalla carta velina bianca. Il cuore mi batteva fortissimo nel petto.

«Ho intravisto il carretto del fioraio Nicola che passava. Ho visto i tulipani e ho pensato di prenderteli», fece spallucce, «Forse ne ho presi troppi...», pensò, guardando la vasta quantità di tulipani che stringeva, «Ah... te la metto qua», si voltò, mettendo sul tavolino il piccolo vassoio grigio con sopra una tazza di caffè, anzi no, di cappuccino, e, su un piatto, due pancake con due fragole vicino e una ciotolina con del cioccolato dentro.

Prima che potesse aggiungere altro, mi alzai sulle punte e gli afferrai le guance, lo baciai velocemente, spinsi le labbra sulle sue più volte, con dolcezza e passione. Riccardo mi strinse con un braccio dietro la schiena. Il profumo dei tulipani a mischiarsi con il suo.

Sorrisi, mentre mi faceva piegare la schiena all'indietro per quanta potenza metteva nel ricambiare quel bacio. «Grazie.»

«Per una colazione e dei fiori?», rise.

«Mh-hm», annuii, abbracciandolo forte.

«Forza, mangia», mi diede un bacio sulla tempia facendomi socchiudere le palpebre e godermi quella dolcezza inspiegabile da parte sua.

Mi sedetti sulla poltrona, e lui mi fece compagnia. «Come facevi a sapere che mi piace il cappuccino?», chiesi addentando un pezzo morbidissimo di pancake, straordinariamente buono.

«Prendevi solo quello quando facevi colazione in barca. Ero io a fare gli ordini al bar», mi ricordò.

Io annuii, «Tu non fai colazione?»

«L'ho già fatta», asserì, lanciandomi un'occhiata alle gambe.

Io alzai gli occhi al cielo. «Simpatico», arrossii.

Lui rise. Poggiò la nuca sullo schienale del divano. «Prendo solo il caffè», mi informò. «Ti accompagno a casa appena sei pronta. Devo stare alla Villa per le undici, ma prima devo sbrigare delle faccende. Ti dispiace?»

Io negai. «No. Anzi, scusa se ti sto togliendo tempo.»

Lui si accigliò con un sorriso divertito. «Non mi togli tempo», mi assicurò, «Tranquilla.»

Guardai fuori dalla finestra, sorseggiavo il cappuccino con le gambe accavallate. Sentii i suoi occhi scrutarmi piano, come se avessi dei dettagli da scoprire, come un dipinto da studiare.

«Hai da fare oggi pomeriggio?»

Mi voltai verso di lui. «Oggi pomeriggio?» pensai, «... no, non credo. Perché?»

«Allora vieni con me», decise, «Ti porto in una spiaggia. Ti vengo a prendere alle tre.»

Nascosi un sorriso da dietro la tazza fumante. «Va bene.»

Finii la colazione. Sistemammo la camera e dopo scendemmo nel locale. Lavai il piatto della mia colazione e la tazza, nel frattempo Riccardo era andato a sistemare i fiori sul motorino. Sistemai tutto nella cucina del locale, così non avrei dato disturbo a Keesi e Franco.

Quando uscii dal locale, notai Riccardo parlare con una ragazza. Era grande, più grande di me di certo. Aveva dei capelli neri, afro, le facevano da cornice ad un viso lucente e pulito. Lo raggiunsi titubante, lei rideva e gli sfiorava il braccio con la mano.

Qualcosa mi punzecchiò lo stomaco, un fastidio senza origine.

«Ehi, io ho finito», enunciai, schiarendomi la voce.

Riccardo abbassò gli occhi nei miei, annuì.

«Oh, e tu? Sei?», la ragazza mi squadrò. Era poco più alta di me, di qualche centimetro.

«Sono Alba», sorrisi, forse un po' troppo forzatamente.

«Alba...? Che nome originale!», sorrise, percepii, però, una certa forzatura nel farlo, mi guardò meglio, scrutandomi dall'alto verso il basso con le braccia conserte. Poi, con un sorriso cedevole, si riferì a Riccardo, «Non pensavo te la facessi con le ragazzine.»

Riccardo scosse il capo, ignorandola. «Lei è Shira, la figlia più grande di Keesi», me la presentò Riccardo.

Io annuii, diffidente. Come poteva la madre essere così gentile e affabile e la figlia essere totalmente il contrario?

«Andiamo?», la voce di Riccardo stravolse i miei pensieri. 

«Mh-hm», strinsi le labbra.

Lui mi passò il casco e si infilò il suo. «Ciao, Shira», le disse lui, io gli salii dietro e poggiai le mani sui suoi fianchi.

«Ciao, Ric. È stato bello rivederti dopo tutto questo tempo. Dovresti passare più spesso da queste parti, ci facciamo una chiacchierata, come una volta

«Sono molto impegnato, ma ci sentiamo», le disse, tolse il cavalletto con una spinta di bacino e girò la chiave nel quadretto.

Shira annuì, alzò la mano a mo di saluto e si avvicinò verso il locale, sentii i suoi occhi mai staccarsi da noi due mentre si avviava verso il portone.

«Ci sei?» chiese, voltando il capo verso di me. Poi osservò il laccetto del casco, sospirò e lo sistemò meglio. «Devi mettere bene il casco, non voglio averti sulla coscienza.»

«Esagerato», mormorai.

Lui sorrise. Poi mi diede un bacio. Improvvisamente. Uno di quelli che dicevano delle cose, uno di quelli che erano la dimostrazione di qualcosa di nascosto. Un bacio che sapeva di cose dette ma non dette.

Poi partì.

Mi lasciò fuori la Villa. Mi allungò i fiori con serenità sul viso, sembrava essere figlio del Sole con quei ricci a cadergli sulle sopracciglia e quel sorriso tirato da capogiro. Li presi tra le braccia, e li guardai come se fossero un bambino.

Mi assicurai che nessuno ci avesse visto per preservargli un lungo bacio. Un altro. Forse era un trucco, forse mi aveva tratta in inganno. Con quelle labbra invitanti e morbide, sempre pronte a baciarmi, ed io che non riuscivo a rifiutargli niente. Lui che prima mi pregava e desiderava un mio bacio, ed ora ero io la stupida a non riuscir a non negargli alcun bacio, a dargliene uno appena potevo, appena era abbastanza vicino.

Ci salutammo con dei sorrisi, con il rumore del motorino che risuonava nelle orecchie m'inoltrai nel giardino. Quando alzai lo sguardo, mamma mi aspettava sull'uscio, con le mani sui fianchi.

«Signorina!», mi richiamò, con una severità che non riuscii a prendere sul serio. «Ci hai fatti preoccupare, dove lo hai lasciato il cellulare?», mi abbracciò e osservò i fiori.

«Scusa, davvero. È stata una... serata turbolenta», le sorrisi.

Mia madre scosse il capo. «Tu e tuo padre siete uguali, con questo sorrisetto furbo fate fesso chiunque!», mi incitò ad entrare in casa. «Se non fosse stato per Geppa non avremo mai saputo che stavi con Riccardo.»

Io la guardai, accigliata e con le guance a prendere colore. «In che senso?»

«Stamane Geppa lo ha telefonato. Ieri mattina, prima che tu ti svegliassi, era entrato in cucina chiedendo di te, ma tu dormivi ancora. Perciò avevamo pensato che aveste discusso. E allora la prima cosa che abbiamo pensato di fare è stato telefonare lui», spiegò, mentre mi aiutava a mettere i tulipani in un'ampolla. «Ci ha detto che eri con lui e che stavi bene, che non c'era nulla di cui preoccuparsi.»

Io annuii, sistemai i fiori con cura.

«Te li ha presi lui i fiori?»

«Sì», sorrisi, «Sono stata bene con lui.»

Lei mi sorrise, dolcemente. «Avete chiarito, dunque?»

«Certo. C'è stato un fraintendimento», le assicurai. «È stato gentile con me, mamma.»

«Quindi, tutto bene?», sospirò. Mi resi conto che l'avevo fatta preoccupare veramente tanto, forse sapendomi con Riccardo dopo aver intuito avessimo discusso non l'aveva fatta stare tranquilla. Dopo gli avvenimenti con Manuel dovevo capire che anche per i miei era difficile sapermi con altri ragazzi, avevano quasi più timore di me.

«Scusami, davvero, per averti fatta spaventare», l'abbracciai, lei mi diede un bacio tra i capelli.

«La mia bambina», sussurrò, accarezzandomi il capo.

«Sto bene», annuii, «Te lo assicuro, mamma. Riccardo sa tutto sulla questione di Manuel», le dissi.

Lei mi guardò sorpresa. «Sa tutto

«Gliel'ho raccontato», strinsi le labbra. «Riccardo è una brava persona.»

Lei annuì dopo averci pensato per qualche istante. Mi abbracciò più forte accarezzandomi una guancia. «Va' da tuo padre. Lo hai fatto spaventare», mi consigliò.

«Corro», le sorrisi.

Andai dritta nella sua libreria correndo nel corridoio. Quando spalancai la porta, lui alzò lo sguardo dal suo libro e si tolse gli occhiali neri da sopra al naso. «Alba? Gesù mio, finalmente...!» Si alzò, allargò le braccia e mi venne incontro.

Io sorrisi e lo abbracciai, come se fossi rimasta una bambina nelle sue grosse spalle.

«Riccardo mi ha riportata a casa», gli dissi.

«... Riccardo, eh?», sospirò.

«È tutto okay», ridacchiai. «Mi ha fatto piacere stare con lui», gli dissi, con papà mi veniva facile parlare di qualsiasi cosa.

«Se ti ha fatto del mal—»

«No, papà, no», lo rimproverai subito. «No, Riccardo non è quel tipo. Devi star tranquillo. Lui non è come Manuel. Lui... è diverso con me», papà mi osservò con un cipiglio.

Poi sorrise, lentamente, come se avesse appena scovato un enigma complicato. «Alba...», assottigliò le palpebre, «Ti piace?»

«Che?», dissi come se mi avesse scottata con le sue stesse parole. «Ma come ti viene in mente?»

«Hai uno strano colorito, proprio sulle guance. Hai un'espressione che non ti leggevo sul viso da moltissimo tempo», elencò, «Sono stato ragazzo anch'io, bambina mia, so come ci si sente.»

«È presto per dirlo», dissi canzonando, feci per uscire dalla libreria, ma lui continuò.

«Non dare limiti ai tempi dell'innamoramento!», si andò a sedere di nuovo sulla sua sedia di cuoio.

Io alzai gli occhi al cielo e chiusi la porta.

Salii in camera mia con un sorriso sulla faccia, mi ritrovai sul letto Sofia e Iris. «Tu!», mi indicò Iris.

«Cosa fate qua?», risi, ancora sulla porta.

«Tu hai scopato!»

Sgranai gli occhi. Chiusi velocemente la porta, la fulminai. «Sei impazzita?», mormorai.

«Oh, andiamo! Muoviti, devi raccontare tutto!», disse Sofia.

«Tanto io lo sapevo che prima o poi sarebbe successo», fece spallucce Iris.

«Com'è stato?».

«Ce l'aveva grande? Oh, io penso proprio di sì!»

Io scossi il capo. «Devo studiare, ragazze. Ve ne racconterò una prossima volta.»


Mi ero stretta alla sua schiena; sfrecciavamo tra la calura estiva di metà luglio sul suo motorino. Ischia era un covo di turisti, sembrava di stare su un paradiso terrestre. Il Sole bruciava e l'aria era satura d'ossigeno, odorava di terra, di cipressi e pini.

Indossai il mio costume preferito, infilai il copricostume di pizzo bianco, un paio di occhiali da Sole vintage e i capelli rossi che sventolavano sulla mia schiena sospinti dal vento.

Riccardo aveva una canottiera larga addosso, gli copriva a stento tutto il petto, e un bermuda a contrastare la sua pelle olivastra. Gli domandai dove stessimo andando, lui mi assicurò che mi sarebbe piaciuto, che l'avrei trovata splendida come spiaggia. Mi fidai, ovvio che mi fidai.

Era una spiaggia vicino al porto, proprio dove lui abitava da piccolo. Sfrecciò col motorino in un viale con l'asfalto rovinato, per poi trovarsi vicino a un benzinaio sul ciglio di un molo. Mi fece cenno di scendere, io così feci. Mi sciolsi il casco, mi sistemai i capelli. L'unico rumore che si sentiva era il rinsaccare del mare, le cicale sui pini altissimi e il dialetto napoletano parlato dagli uomini che facevano benzina ai gommoni.

Riccardo mise il cavalletto, tolse le chiavi dal quadretto. Alzò una mano, ed un uomo lo notò, scoppiò a ridere non appena lo riconobbe. «Ue! Riccà!», si avvicinò, sorridente.

«Ciao, Giusè. Te lo posso lascià il mezzo?»

«Comm, comm!» — «Certo!»; «Te lo guardo io, non preoccuparti.»

«Grazie, ricordami di pagarti un caffè», gli sorrise.

Giuseppe rise. Riccardo, con un cenno del mento, mi disse di seguirlo. Alzai gli occhiali da Sole, li usai per tenere le ciocche dei capelli ferme sulla testa.

Passeggiammo lungo un giardino comunale splendido. Ricordava tantissimo uno di quei parchi antichi, aveva di sicuro qualche origine greca. Da lì si poteva vedere tutta la costa amalfitana, i gabbiani sfioravano il dorso dell'acqua, intenti a beccare del cibo. Essendo vicino al porto, si sentiva il rumore degli attracchi e la partenza degli aliscafi o traghetti.

Riccardo camminava sempre un passo avanti a me. Con naturalezza, decisi di allungare la mano e sfiorare la sua. Lui abbassò il mento per guardare quel gesto, come a volerlo ricordare, sfiorò il mio polso con le dita, avvicinai la mano alla sua e aprii il palmo contro di essa facendomi spazio fra i suoi polpastrelli. Incastrai i polpastrelli nei suoi, sentii le sue nocche dure sotto le dita.

Le nostre mani si chiusero l'una nell'altra. Due pugni stretti. Incastrate perfettamente.

Nascosi un sorriso e continuai a guardarmi attorno, nel frattempo avevo intravisto Riccardo ridere sottovoce e lanciarmi un'occhiata.

«Come si chiama questa spiaggia?», chiesi scendendo delle scale, lui era sempre ad un passo più avanti, ma mi aspettava senza lasciarmi la mano.

«Pagoda. Ma molti la chiamano Zimadì o Al Cantiere. Questo perché col tempo hanno storpiato il nome. C'era una discoteca, proprio sulla spiaggia, si chiamava: Zio Mattia, ad oggi è solo un edificio trasandato e trascurato, ma mi fa ridere molto.»

Io lo ascoltai, ci inoltrammo sotto un tunnel bianco, ebbi il primo contatto con la sabbia fresca e liscia. Era un tunnel nascosto dalla luce del Sole, infatti quando uscimmo da esso venni invasa prepotentemente dal calore.

La spiaggia era popolata da famiglie, qualche ragazza e ragazzo, qualche gruppo di amici e negli angoli qualcheduno faceva un cruciverba godendo dell'ombra che davano gli scogli.

Riccardo mi trascinò con sé, scendemmo ulteriori scale. «Ci sono cresciuto su questa spiaggia», mi disse sorridendo.

Non mi lasciò mai la mano. Mi suggerì di togliere le ciabatte, lui si tolse la canottiera e decidemmo di metterci quasi a riva mare, sulla sabbia.

«Sto morendo di caldo», disse, «Te lo fai adesso un bagno?»

«No, lo faccio più tardi. Non aspettarmi, va' pure, io sistemo la roba. Lasciami la canottiera», dissi, con tranquillità.

Lui annuì. Mi sorrise e poi si allontanò verso il bagnasciuga. Mi tolsi il copricostume, stesi l'asciugamano che avevo messo nella borsa di paglia e mi sedetti.

Adoravo osservare la spiaggia da un occhio esterno; mi guardai attorno, ascoltai il dolce e rassicurante frastuono del mare: i bambini che ridevano, gli schizzi giocosi, le mamme che intimavano di non allontanarsi, di mettere la crema solare, padri che discutevano a riva sulla partita di calcio della sera prima, ragazze a prendere il Sole e a giudicare chiunque, ragazzi che giocavano a pallone a pochi passi da me.

In mare Riccardo spiccava.

Si era tuffato con le mani tese. Lo avevo visto nuotare, lo avevo osservato passarsi una mano tra i capelli e poi sul viso. Decisi di prendere il cellulare e fargli un video, per ricordo, mentre si godeva il dondolare delle onde. I suoi occhi mi cercarono, abbozzò un sorriso quando si rese conto lo stessi riprendendo, si portò una mano sulla fronte per pararsi dal Sole e, a mia volta, sorrisi da dietro lo schermo quando m'alzò il terzo dito.

Risi, lui decise di uscire dal mare e raggiungermi. L'acqua gli scivolò addosso, i tatuaggi giocavano sui suoi muscoli che si contraevano ad ogni passo egli facesse. Le gambe slanciate, il bermuda un po' stropicciato e abbassato di più su un fianco lasciava intravedere meglio la linea che glielo definiva. Le spalle larghe, le clavicole sporgenti e le braccia piegate sopra la testa per strofinarsi i capelli e far schizzare via l'acqua in eccesso.

Posai il cellulare e lo guardai con un occhio chiuso, poiché il Sole mi impediva di guardarlo chiaramente. «Già finito il bagnetto?» Lo presi in giro.

Notai avesse lo sguardo puntato altrove. Mi girai a guardare dove lui guardava. «Meglio che rimanga con te per un po'», si stese di fianco a me.

«Chi guardavi?», mormorai, lui chiuse gli occhi, lasciando che i raggi lo colpissero in pieno, le braccia dietro la nuca.

«Lo stronzo che ti sta fissando da quando siamo scesi», borbottò.

Decisi di non ribattere.

Mi stesi a pancia sotto, gli occhiali calati e con l'intento di abbronzarmi maggiormente. Dopo qualche minuto anche lui si mise a pancia sotto, le braccia a sostenergli la guancia e il suo respiro calmo a mischiarsi con la pace delle onde.

Guardai la sua schiena baciata dal Sole. I suoi tatuaggi, i suoi muscoli. Desiderai poterci scrivere il mio nome sopra con l'inchiostro.

Mi azzardai ad allungare le dita tra i suoi capelli, erano bagnati e profumavano di salsedine. Gli accarezzai le tempie con le nocche, la guancia e il mento. Lo osservai come se in realtà non potesse veramente vedermi, come se fosse un sogno, come se lui non avesse potuto sentire le mie dita sul suo viso. Ma non mi fermò, si lasciò carezzare con delicatezza. Avevo desiderato farlo da tanto tempo. Mi abbassai per dargli un bacio sulla spalla grossa, calda.

La sabbia bollente sotto di me divenne insostenibile, nonostante l'asciugamano. Socchiusi gli occhi e lasciai cadere la guancia sul mio polso.

Riccardo aprì gli occhi e mi guardò. Mi studiò: studiò i capelli cosparsi sulla mia schiena e sulle spalle; studiò il mio profilo e studiò il mio costume. Sospirò, spostandosi su un fianco, tutto il suo petto guizzò di muscoli, sembrava pronto a dirmi qualcosa. Intravidi il suo braccio dilungarsi, lo poggiò sulla mia schiena, sfiorò il laccetto del costume del pezzo di sopra. Gli lanciai un'occhiata attenta, diventai rossa.

Riccardo sorrise, compiaciuto. Inclinò il viso per domandare: «L'hai mai fatto l'amore nell'acqua?»

I miei occhi saettarono nuovamente su di lui. «C'è gente, Riccardo», bofonchiai, cercai di non fargli notare come avevo iniziato a tremare con quaranta gradi all'ombra.

«Non ti fidi di me?»

«Si vede da cento miglia quando due persone fanno una cosa sconcia in mare.»

Lui ignorò la mia spiegazione. Mi circondò i fianchi e mi costrinse ad alzarmi, mi tolse gli occhiali gettandoli sull'asciugamano. «Sei insopportabi— Riccardo!», sbottai, mi aggrappai al suo collo quando mi prese a mo di sirena e si diresse in mare.

«Tu pensi troppo», mormorò.

«Tu non pensi proprio, invece», mi lasciò andare le gambe, poi mi schizzò con poca gentilezza incitandomi a buttarmi definitivamente.

Senza badare a lui, affondai sotto la superficie dell'acqua, mi passai una mano tra i capelli e sugli occhi. Mi girai verso Riccardo nuotando all'indietro, guardandolo da sopra il pelo del mare.

«Conosco questa spiaggia come il palmo della mia mano», disse, «Ti porto a vedere una cosa.»

Cominciò a nuotare in maniera trasversale alla spiaggia, a bracciate ci dirigemmo verso gli scogli che parevano essere stati rosolati dal mare, il muschio verde a fare da ornamento. C'era anche una piattaforma con le mattonelle bianche su cui sopra sorgeva la statua di una Venere e i bambini ci facevano i tuffi spericolati. Più ci avvicinavamo a quel lato spopolato della spiaggia, un po' nascosto e pauroso, più la marea si abbassava rendendo difficile persino nuotare. Potevo stare in piedi e l'acqua mi sarebbe arrivata al polpaccio.

Sembrava fossimo atterrati per la prima volta sulla Terra. I primi esseri viventi, circondati di verde e natura. Mai sentito un silenzio così rumoroso, così vivo. Il cinguettio degli uccelli incastrati nei rami della radura, le cicale, i gabbiani, gli scali delle navi e lo starnazzare ovattato dei bambini nell'altra spiaggia.

Riccardo era davanti a me, si era sistemato i capelli all'indietro e aveva guardato tutto il paesaggio, scorsi nostalgia nelle sue iridi.

«Da piccolo ci passavo i pomeriggi a giocare a calcio», mi raccontò, guardandomi da sopra la spalla, la mandibola segnata: «Oppure ci venivo di sera, per leggere i primi libri che trovavo in giro per casa di Geppa», si girò, mi afferrò le mani e mi attirò a sé.

«Perché sembra tutto così bello quando sono con te?», borbottai. Le sue mani afferrarono le mie per portarle sul suo petto, le sue dita scesero a giocare con i lacci del mio costume, del pezzo di sotto.

Lui fece spallucce sorridendomi, strofinò le sue labbra sulla mia guancia. Respirai la sua pelle bagnata, gli accarezzai i pettorali e gli addominali. Riccardo slacciò il laccio del pezzo di sopra, mi fece cadere le spalline lungo le spalle e mi baciò piano le clavicole. Le sue mani a stringermi le natiche mentre ansimavo vicino al suo orecchio.

«Sono una ragazzina per te?», sussurrai, stringendo i suoi capelli tra le dita.

Riccardo si accigliò, mi sfiorò le labbra e cercò i miei occhi. «Chi ti ha detto questa stronzata?»

«La figlia di Keesi. Sono solo una ragazzina?», osservai i suoi occhi e le sue labbra.

Mi prese le guance, mi inclinò il viso e mi osservò attentamente. «No, Alba», sussurrò, concentrato sul mio viso, «Sei la più donna che conosco.»

Sfiorai le sue labbra con la punta del naso, respirai dal suo respiro e lasciai andare un sospiro di perdizione. La sua lingua mi accarezzò la bocca, aprendomela e navigandola.

Mi afferrò per le cosce, mi fece stendere su quel mare che funse da letto. L'acqua a sfiorarmi il seno nudo e i capelli a galleggiare, la mano di Riccardo scolpiva l'orma delle sue dita sulle mie cosce, si mise in mezzo ad esse e mi tenne stretta su quella spiaggia paurosa.

Mi baciò il collo, gli accarezzai la schiena, le scapole, le vertebre. Chiusi gli occhi e ansimai, il desiderio a salire quando sentii la mia intimità nuda venire pervasa dall'acqua del mare. Mi stava spogliando dolcemente, mi osservò e mi disegnò nella sua mente.

Scesi ad abbassargli i boxer, gli accarezzai la guancia. «Rimani dentro», sussurrai, prima di baciarlo, «Prendo la pillola.»

Riccardo mi strinse la nuca, mi baciò fortissimo, quasi come se volesse farmi affogare nei suoi baci. «Sei sicura?»

«Sì, ti prego», ansimai poco ponderata.

Mi entrò dentro senza esitare, strinse la sabbia tra le dita e mi si spezzò il respiro nella gola. Mi morse la mandibola. Prese la mano e la portò sulla sua lunghezza dura, gonfia, non del tutto dentro di me, «Mi fai uscire pazzo, te lo giuro», mormorò roco.

Le mie mani si riempirono delle sue natiche, lo incitai ad entrarmi dentro, fino alla fine, a muoversi piano. Il rumore della nostra unione a risuonò saldamente nell'acqua, come se ci stessimo unendo ad essa. Come se ci stessimo sciogliendo, lui sopra di me ed io sotto di lui.

«Voglio sentirti, Riccardo», sussurrai, baciandogli l'angolo della bocca, «Non trattenerti, per favore.»

Riccardo mi afferrò i fianchi, mi fece muovere il bacino incontro al suo, gli uscì un gemito che mi fece rabbrividire, la mia schiena ad arcuarsi e i miei capezzoli turgidi a strofinarsi sul suo petto.

Le mie dita si tennero ai suoi capelli, il mio braccio si aggrappò al suo fianco e ansimai sempre di più. Gli lasciai un bacio sotto l'orecchio, «Sono tua...», sussurrai, in un gemito, «Mi hai sentita? Sono tua

Gemette lui, contro la mia spalla, un'onda spinse i nostri corpi, facendoci rabbrividire, un gemito ci strappò il respiro. «Cosa mi stai facendo, Alba?»

Lo baciai, gli sfregai le labbra con le mie. I nostri gemiti diventarono più forti, urla di piacere e uno strazio così piacevole si impossessarono di me, lui continuava a muoversi.

Riccardo mi baciò, poggiò la fronte sulla mia e mi prese la mano, stringendola sott'acqua, tra la sabbia. Gli mantenni il mento ed entrambi ci cedemmo ad un orgasmo, sentii il suo piacere riversarsi dentro di me ed un brivido mi fece tremare la schiena, il respiro.

Respirammo velocemente, il cielo era sopra di me ed era ricoperto da nuvole grosse, bianche, cotonate, lui aveva il viso arrossato sul mio petto e la voglia di stringerlo più forte mi assillava completamente.

«Avrei voluto che il sesso fosse così sin dalla mia prima volta...», sussurrò, dandomi un bacio tra i seni, poi cercò i miei occhi, «Ma, evidentemente, nessuna era te

Ridacchiai e gli diedi un bacio a fior di labbra. Alternai le iridi fra i suoi occhi e la sua bocca ancora a pochi centimetri dalla mia. «Me lo avresti insegnato davvero a fare l'amore qualche estate fa, se ci fossimo conosciuti e non fossi stata fidanzata con Manuel?»

«Ti avrei insegnato ogni cosa

Riccardo mi accarezzò i capelli. Dopo lunghi minuti ci alzammo, lui mi aiutò a sistemarmi il reggiseno ed io sollevai lo slip. Poi mi afferrò la mano e mi trascinò su quella spiaggetta confortevole, recondita.

Sorpassammo qualche scoglio piccolo a saltelli, fino a mettere piede là dove il mare non toccava la sabbia. «Guarda», mi indicò una scritta sul muro di pietre.

Non vorrei crescere mai. Diceva la scritta, era sbiadita a causa dal sale, dalla pioggia, dalle maree. Ma era chiara, era bianca, in contrasto con la parete scura.

«La scrissi al mio compleanno di sedici anni. Ho sempre voluto restare bambino, ma più ci pensavo più crescevo. Quindi decisi di scriverlo perché, da coglione, credevo che la cosa sarebbe cambiata, ma, ovviamente, non è cambiato nulla. Sono un ventenne senza speranze», si sedette, trascinandomi in mezzo alle sue gambe.

Poggiai la nuca sul suo petto, mi rannicchiai su di lui, la mia schiena contro i suoi addominali. Le nostre mani a giocare tra di loro, a sfiorarsi e soffocarsi, ad accarezzarsi e stringersi forte.

«Ho visto l'album di tua mamma», gli confessai, «Scusami, non avrei dovuto.»

Lui non rispose, mi diede un bacio sulla testa. «Non fa niente. Hai fatto bene. Non sapevo fosse ancora lì», mormorò calmo. «T'è piaciuto?»

Io annuii. «Tua mamma ti vuole davvero bene.»

«Lo so...», sorrise flebilmente, poggiò la guancia sul mio capo. «A volte mi chiedo se le manco, se mi pensa.»

«Sono sicura lo faccia. Vuole solo che ti crei un'indipendenza, fa bene. Ci tiene moltissimo a te, Riccardo», gli accarezzai le vene sulla mano.

«Era così ossessionata dalle fotografie», rise, «Me ne faceva di continuo, l'amavo per questo.»

Sorrisi. «Sei bellissimo in quelle foto. In tutte.», bofonchiai, perdendomi con gli occhi sulla sabbia che gli copriva i piedi. «Sei sempre stato così bello...»

Riccardo rimase in silenzio, mi alzò il mento con le sue dita. Incrociai i suoi occhi, il mio cuore venne travolto da tumulti continui, da scosse insidiose.

Sei bello da mettermi paura.

Mi accarezzò le labbra con il pollice e dopo ci poggiò la bocca. Mi baciò in un modo diverso, con nessuna passione rovente, solo con una tenerezza immonda, che non gli avevo mai visto usare. Non avrei mai pensato che Riccardo sapesse baciarmi così bene, che sapesse dosare i baci per qualsiasi emozione provasse.

Mi accarezzò la guancia e mi guardò mentre giacevo con il viso sulla sua spalla, gonfia solo del mio respiro.

«Chi era quella Shira?», domandai tutto d'un tratto, dopo ch'eravamo stati in silenzio per lunghi secondi col solo rumore delle onde.

«Te l'ho detto. La figlia grande di Keesi.»

«Non in quel senso», sospirai guardandolo negli occhi, alzai il mento verso di lui. «Mi è sembrato che non apprezzasse la mia presenza, o forse mi sbaglio?»

Riccardo fece scivolare gli occhi sul mio corpo. «Abbiamo avuto una storia», accennò.

Io alzai le sopracciglia, sorpresa. «Oh», sussurrai abbassando gli occhi. Mi ricordai, boccheggiai senza riuscir a fare uscire nulla di sensato prima di dire: «Era lei...? L'unica ragazza con cui hai avuto una relazione?»

«È stato tempo fa, definirla relazione è un parolone. Avevamo entrambi sedici anni. È durata poco, è stata intensa perché eravamo piccoli... molte prime volte le abbiamo fatte insieme», raccontò, «Ad esempio, io sono stato la sua prima volta.»

Annuii, cercai di ricollegare le informazioni. «E... e perché vi siete lasciati?» Sperai non risultassi invadente.

«Non andavamo d'accordo. Non era abbastanza matura per me, neanche io per lei. È per questo che si è trasferita altrove, ci è rimasta malissimo quando ci siamo lasciati. A diciott'anni si fanno molte stronzate, feci promesse più grandi di me e cose di cui non vado fiero. Sono stato stupido, ho fatto degli sbagli», mi accarezzò i capelli, come se volesse dirmi qualcosa attraverso quel gesto, «Quando tornava, due volte al mese, fino a qualche tempo fa facevamo sesso. Era un sesso egoista, però. Perché ognuno pensava a cose diverse. Lei mi rivoleva, ed io facevo l'imbecille, illudendola», sospirò, accarezzandomi lo zigomo, «Quando finivamo, provava sempre a convincermi, provava a dirmi di riprovarci, ma io non provavo più niente per lei. Adesso è solo un ricordo, un bel ricordo perché comunque è stata una storia importante, siamo cresciuti assieme, ma non è più niente», lo disse come per assicurarmi qualcosa.

Io alzai gli occhi nei suoi, spostandoli dalle nostre mani intrecciate. Mi faceva strano pensare a Riccardo nel letto con lei. Pensare che lui fosse stato la sua prima volta mi fece accapponare la pelle.

«Come una volta...» ripetei la frase che gli aveva rivolto quella la mattina stessa, fuori al locale, «Lei non parlava di chiacchiere», mormorai, «Fate ancora sesso?»

«Non di recente, bambina.»

«Sì, ma lei pensava che tu avresti acconsentito. Quando è stata l'ultima volta?»

«Più di due mesi fa. Ma non è stata l'unica, non devi farti il problema», mi tenne incatenata ai suoi occhi senza muovere un muscolo.

Sospirai pesantemente, riabbassai gli occhi. Mi misi vergogna, socchiusi gli occhi. «Sto facendo una scenata di gelosia inutile, vero?», borbottai, «Mi sto rendendo ridicola», mi portai una mano sulla guancia, voltai il viso verso il mare.

Riccardo mi diede un bacio sulla tempia. «L'unica che adesso voglio vedere nuda sei tu», mormorò sulla pelle della mia spalla, mi solleticò i fianchi e mi sfuggì un risolino.

«Anche questo lo avrai detto a tutte quelle che ti sei scopato», alzai le sopracciglia, guardandolo da sotto le ciglia.

«Sì, decisamente a tutte quante.»

Quando raggiungemmo nuovamente la spiaggia, ci stendemmo sugli asciugamano.

Avevo messo i capelli di lato, Riccardo era seduto vicino a me, i muscoli delle braccia erano tesi per come teneva stirate le mani all'indietro, sul pareo; lo avevo osservato in silenzio. Si portò i capelli all'indietro e si guardò intorno con attenzione.

Lo avevo anche beccato lanciare uno sguardo al mio culo, di nascosto, come se io non le vedessi le sue iridi muoversi di lato, gli diedi uno spintone. Lui scoppiò a ridere, una risata che mi fece tremare le viscere del corpo, mi fece sciogliere il cuore.

Abbassò il viso, ancora con un sorriso spillato sulle labbra, e si avvicinò per darmi un bacio. Gli accarezzai la guancia ed egli strofinò il naso contro il mio, dolcemente. Mi tolse gli occhiali e se li mise lui, fece un'espressione buffa e intrecciò le braccia dietro alla nuca, stendendosi di schiena.

Risi, gli osservai il profilo: la mandibola definita, le labbra, carnose e compatte, distese in un'espressione spensierata, la punta del naso dritta, le sopracciglia segnate e i ricci scomposti a coprirgli le tempie.

«Tterpente?», udimmo.

Alzammo entrambi il viso. Ai nostri piedi c'era una bambina. Era piccola, camminava a stento, anzi, gattonava. Strisciava con le mani tutte sporche di sabbia verso di noi, indicava Riccardo.

«Tterpente!», disse con più enfasi.

Guardai dove ella indicasse, capii dicesse "serpente", ossia il tatuaggio che Riccardo aveva sul polpaccio.

«Parla del tatuaggio», dissi a Riccardo.

«Ah, dici questo?», si mise a sedere, portandosi i miei occhiali tra i capelli.

La bambina gli toccò il tatuaggio, quasi come se ne fosse incuriosita. «È belenosso

«No, non è velenoso. È finto, guarda», toccò la testa del serpente.

«Quindi non ti fa male?», chiese, sedendosi impacciatamente sul pannolino imbrattato.

«No, non mi fa male. È buono.»

«Pecchè hai così tatte linee nere qua?» S'indicò le spalle.

«Mi piacciono le linee nere», rise lui, allora.

«Potto vedelli?», chiese, togliendosi la frangetta dagli occhi.

«Vuoi vederli?», ripetette, «Certo, vieni qui», le allungò le braccia e la bambina si avvicinò. Riccardo la prese per le ascelle e la portò a sedere sulla sua gamba, lei s'interessava a scrutargli il disegno di una stella a cinque punte sulla spalla.

«Come ti chiami? Perché sei da sola?», domandò togliendole della sabbia dalla guancia.

«Mi chiamo Mariasole», rispose.

«E la mamma? Il papà? Dove sono?», gli domandò, guardandosi attorno per vedere se ci fosse qualcuno che la stesse cercando.

La bambina fece la stessa identica cosa. «Non lo scio», si mordicchiò la pelle del polso, con una vocina preoccupata.

Riccardo annuì. «Va bene, non fa niente», le disse con tranquillità, senza farla spaventare.

Poi si voltò verso di me. «Vado a cercare in giro. Tu puoi guardarla?»

«Sì, certo» mi misi a sedere immediatamente.

«Lei è Alba, stai un pochino con lei.»

Mariasole mi guardò e scosse la manina per salutarmi, allungò le braccia ed io, sorridendo, la presi in braccio.

«Che bei capelli che hai», disse, prendendomi una ciocca e portandosela sulla testolina.

Riccardo le diede una carezza sulla guancia con le nocche, «Quanti anni hai, piccola?»

Mariasole alzò un dito, indicando avesse un anno. Riccardo si allontanò alla ricerca di un genitore disperato. Quando tornò, io e Mariasole stavamo facendo dei castelli di sabbia con le mani, si stese dietro di noi.

«Niente?» Domandai.

Lui stirò le labbra e negò.

Sospirai. Riccardo le parlò, chiedendole qualsiasi informazione potesse aiutarlo a trovare i suoi genitori. Aveva poggiato la testa sulla mia schiena e nel frattempo Mariasole provava a scrivere il suo nome sulla sabbia.

Fece per portarsi la mano alla bocca e Riccardo la fermò. «Attenta», prese la bottiglia d'acqua che c'eravamo portati dietro e le sciacquò le mani.

Dopo qualche minuto, si lamentò e gattonò fino a stendersi sul pareo, vicino Riccardo.

«Che ore sono?», gli chiesi.

«Saranno le cinque... non so.»

«Di solito i bambini piccoli dormono il pomeriggio», spiegai, «Passami il tuo asciugamano», mormorai.

«È ancora bagnata.»

«Meglio», me la passò, io le coprii il capo, così il sole non l'avrebbe scottata.

Passarono lunghe ore, Mariasole dormiva serena vicino a me che leggevo il libro che m'ero portata, Riccardo si era fatto un altro bagno e, risalendo, notò che Mariasole si stesse svegliando. Le sorrise.

«Buongiorno, piccola», gli passai la mia asciugamano dato che la sua l'aveva Mariasole, ci si strofinò i capelli.

«Ciao», borbottò con le nocche paffute sugli occhi. Le tolsi il telo dal viso e le feci il solletico sulla pancia.

«Hai fame?», le domandò Riccardo.

«Ti», mormorò. «Potto avele un gelato?»

«Sì, certo, corro a prendertelo», le accarezzò la frangia sbarazzina, «Bambolì, a te che prendo?»

«Mi va bene un cornetto, grazie», gli sorrisi.

Riccardo si tese verso di me e mi baciò piano, con le labbra fredde e umide contro le mie calde e asciutte. Aveva le guance arrossate per il Sole come anche le spalle. Dopo si allontanò.

Mariasole strisciò più vicino a me, ancora assonnata. Le sorrisi dandole un bacio sulla fronte, poggiò la guancia sulla mia spalla e guardò il libro che tenevo in mano. «Cos'è?»

«Si chiama Il grande Gatsby. Vuoi che te ne legga un po'?»

«Okay», si portò il pollice alla bocca.

Cominciai a leggerle l'incipit quando, poi, un ragazzo mi si avvicinò. «Ciao, scusa, disturbo?»

Io alzai il viso verso di lui. «Ciao. No, dimmi pure.»

«Ti avevo già vista prima. Sei una bella ragazza, non ti ho mai vista per qua, però», si abbassò, tenendosi sulle ginocchia.

Aveva un fisico esile, un viso tondo e maschile, i capelli castano chiaro che finivano in un ciuffo morbido. «No, sono qui in vacanza.»

«In vacanza, mh», annuì, «Se non hai niente da fare mi piacerebbe portarti da qualche parte.»

Io strinsi le labbra e gli sorrisi amichevolmente. «Sei molto gentile, guarda, ma ho molto da fare», risposi, con delicatezza.

«Capisco, Ischia è molto grande», annuì, comprensivo, poi estrasse dalla tasca del bermuda un pezzo di carta, «Comunque, questo è il mio numero se hai un po' di tempo in più, posso farti vedere qualche cosa di strabiliante... come camera mia, tipo.»

Tirai le labbra e arricciai il naso, sentendomi a disagio. «Sì, certo... come no», dissi con ironia, «Grazie per l'invito», afferrai titubante il foglietto, così magari se ne sarebbe andato prima.

«E di che. Chiamami quando sei libera», e con un sorriso trionfante se ne ritornò dal suo gruppo che lo fissava con fierezza e divertimento.

Guardai Mariasole che, con gli occhioni grandi mi fissava sconcertata. «Tieni, Mary, giocaci quanto vuoi», le passai il foglietto.

Lei lo afferrò e lo strattonò. Riccardo tornò poco dopo, «Ecco qua. Prendi, piccola», si inginocchiò vicino Mariasole e le diede il gelato.

«Glazie Riccaddo!», disse entusiasta.

«Prego Mariasole», disse ridacchiando, dopo avermi passato il mio gelato, aiutò Mariasole a non sporcarsi.

Poi rise. Io lo guardai male, «Sono sporca, vero?»

«Guarda, poi dice che non è una bambina», si riferì a me, parlando con Mariasole.

«Invece di fare lo stupido, dimmi dove», gli diedi uno spintono con il tallone sul ginocchio.

«Qua», indicò il lato destro della bocca, «No, più di qua... no, di là... aspetta», rise quando lo guardai spazientita. Si avvicinò e si chinò per baciarmi, sorprendendomi.

Poggiò le labbra sull'angolo della mia bocca, poi la sua lingua accarezzò il mio labbro e mi succhiò quello inferiore, mi stritolò lo stomaco e mise in subbuglio tutto. Poggiai la mano sulla sua mandibola e lui continuò a baciarmi con trasporto; passò il pollice sul perimetro del suo labbro e si ricompose portandoseli tra le labbra per succhiarne la panna.

Io scossi il capo, lui mi fece un occhiolino. Guardò Mariasole mentre le puliva la bocca di cioccolata, si accigliò piano indicandole la mano chiusa in un pugno. «Cos'hai lì?», prese il foglietto strapazzato da lei.

Mariasole mi indicò. Riccardo mi rivolse un'espressione interrogativa, «Di chi è 'sto numero?»

Io feci spallucce, poco interessata. «Un ragazzo mi ha invitato a un giro turistico nella sua straordinaria camera da letto — parole sue. Gentile da parte sua, eh?»

Riccardo strinse la mandibola e arrotolò il pezzo di carta tra le mani. «Chi era?»

«Non è importante, figurati. È stato imbarazzante più per lui che per me.»

«Non gli faccio niente. Voglio solo capire chi è la faccia da culo.» Però gli vidi formarsi sul volto un'espressione che mi parve infastidita. Le labbra un po' curvate verso il basso.

Io con il capo indicai dietro di me, «Il moro di quel gruppetto.»

Riccardo ispezionò ognuno di loro. «So' ragazzini, non fanno per te», disse per concludere.

Io sospirai, sorrisi a Mariasole. Entrambe finimmo il nostro gelato quando il Sole cominciava a farsi più tiepido.

«Mamma!», gridò all'improvviso la bambina, «Ciao, mamma!», alzò le mani, sventolandole.

Io e Riccardo ci voltammo, vidi una donna con il viso sconvolto, gli occhi gonfi dal pianto e i capelli scombinati. Accanto a lei un poliziotto in borghese. Quando notò Mariasole si portò le mani sulla bocca.

«Mariasole! Eccola, agente!»

Riccardo con un sospiro, prese Mariasole in braccio. La donna corse veloce a braccia spalancate. Mariasole si buttò tra le sue braccia, se la strinse al collo e le accarezzò i capelli con il respiro affannato.

«Dio, grazie...», poi guardò Riccardo, «Grazie.» Mariasole le abbracciò le spalle e si nascose tra i suoi capelli, «Non devi più correre via, capito Mary?»

Mariasole annuì, nascondendosi sotto il suo viso.

«Ragazzo, ti dispiace rispondere a qualche domanda. Giusto per sicurezza», disse il poliziotto.

«Si è avvicinata lei, qualche ora fa. Le abbiamo chiesto come si chiamasse e sono andato a cercare qualcuno, ma non ho trovato nessuno. Sta bene, ha dormito e mangiato», spiegò rassicurando la madre.

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