È il 1963: il boom economico ha raggiunto il suo apice, e a Longarone si vive un periodo più disteso, anche verso i timori generati dalla grande diga del Vajont.
Il destino di Longarone è, però, già scritto. Nonostante l’aumentare dell’intensità e del numero delle scosse sismiche prodotte dallo scivolare di un’enorme frana nell’invaso, non fu predisposto alcun piano di sgombero per le popolazioni interessate da eventuali ondate provocate dallo smottamento, né si cercò di provvedervi sbrigativamente con l’aggravarsi della situazione. Molti alle 22:39 del 9 ottobre 1963, un mercoledì, già dormivano nei propri letti, oppure assistevano alla finale di Coppa dei Campioni nei caffè, nei bar e nei saloni degli alberghi del capoluogo e delle sue frazioni. Una cinquantina di addetti assisteva, in cima alla diga e negli edifici del villaggio, a un “evento sensazionale”, unico al mondo.
La frana, secondo le previsioni, si sarebbe appoggiata lentamente contro la sponda opposta, trattenuta dall’inerzia della propria massa e dall’attrito del suo piano di scivolamento. Un’ipotesi priva di fondamento.
Invece, lo schianto avvenne in meno di venti secondi, e due minuti più tardi, 25 milioni di tonnellate d‘acqua, si abbatterono con la forza di due bombe atomiche tipo Hiroshima sulla valle del Piave, travolgendo i centri abitati sottostanti. Longarone, Rivalta, Pirago, Vajont, Villanova e Faè Basso furono cancellati.
Erto e Casso, sulle sponde del lago, lesionati. Travolte, invece, le frazioni più basse ed esposte.
1910 vittime.
487 bambini sotto i 15 anni.
Una strage annunciata, prevedibile e prevista.
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