L'imbarazzante piacere del Tu...

By MedOrMad

118K 3.7K 409

Med ha 24 anni e porta avanti una relazione di sesso con un soggetto di discutibile fascino, è 2 anni fuori c... More

L'imbarazzante piacere del TuttoTondo
Mutazione Shopping
Casanuova/Casanova
L'eleganza del pigiama.
Due per due
Sotto il cappuccio verde
Come quando hai sete
Quello che succede in bagno...
... resta in bagno!
I discorsi interrotti -prima parte-
I discorsi interrotti - seconda parte -
Never smile at the...
... Crocodile
Do ut Des
Mia nonna non...
... vuole.
Pan per focaccia - parte seconda -
E poi viene il dopo
Fragole e vongole
On the ROD
Dove?
A twist in the night
Per chi suona il telefono.
Importuni e in-opportunità
Parenti

Pan per focaccia - prima parte -

4.2K 123 16
By MedOrMad

Non sta succedendo davvero. La mia migliore amica non è gravida.

Non è possibile.

Insomma, è pieno il mondo di donne amorevoli che sono nate per essere mamme. Ma è impensabile che Dio - o chi per lui - abbia acconsentito a mettere un essere umano nel cantiere di Jules. La mia Jules. Quella che è materna come un sacchetto dello sporco.

Guido con l’agitazione che si spande nelle vene, chiedendomi come sia potuto accadere e rimpiangendo di aver dovuto abbandonare Alex con le sue succosissime labbra; abbassando il finestrino della Circe, con gli occhi piantati sulla strada, tengo una mano stretta con forza sul volante mentre con l’altra frugo nella borsa per estrarre una Marlboro e, con dita tremanti, la accendo, aspirando nervosamente.

Sono ormai a pochi chilometri da casa di Jules; avvicinandomi al suo palazzo, non posso non rimpiangere il fatto di aver abbandonato Alex nella nostra cucina, a petto nudo aggiungerei.

Ripensare alla mezz’ora trascorsa col mio coinquilino in una situazione di emergenza come questa mi fa sentire una persona orribile, ma non posso fare a meno di domandarmi se le costanti interruzioni non siano un modo dell’universo per farmi sapere che è il caso che lasciamo perdere. In fondo il mio desiderarlo con tutta questa costanza non fa che mostrare che razza di incoerente io sia: in poche settimane la mia intolleranza per Alex si è trasformata in lussuria. L’unica cosa che è rimasta invariata è l’intensità del sentimento. Per lo meno da quel punto di vista ho conservato credibilità.

Sono bravissima a rigirare le frittate, ma la verità è che non è solo il calore che mi provoca ogni volta che mi bacia a farmi sorridere: la sua strafottenza ora è diventata divertente, il suo senso dell’umorismo è ridicolo, il suo essere misterioso un costante stimolo. Ora Alex è una distrazione piacevole. Forse un po’ troppo, al punto che comincio a temere che potrebbe rammollire il mio spirito di stronza, ma non me ne importa nulla. Soprattutto non me ne deve importare ora: la mia testa deve restare concentrata su Jules e sul guaio in cui potrebbe essersi cacciata.

Ci sono momenti sbagliati per diventare mamma e questo non è decisamente l’anno giusto per Jules: lei e Cucciolo vivono in un costante stato di “ti-amo-ora-vai-a-farti-fottere”, la mia amica non ha un’indipendenza economica e non è ancora neppure una professionista riconosciuta dallo Stato. È troppo presto, è tutto troppo sbagliato.

Parcheggio l’auto dietro quella di Bet, proprio di fronte al cartello “Passo Carraio” del cancello di Jules e, contemplando la bizzarra idea di recitare il rosario in favore della mia amica riccia, mi attacco al campanello: pochi secondi dopo dall’altoparlante gracchiante esce la voce di Bet che mi apostrofa per il mio ritardo:

“Ce ne hai messo di tempo!”

“Aprimi, Bet.”

Lei esegue senza protestare ed io accenno una cosa che potrebbe essere classificata come corsa per raggiungere rapidamente la porta d’entrata. Aprendola, la prima immagine che mi si presenta davanti agli occhi è quella della mia amica riccia con il viso affondato nel collo di Bet.

Vedere Jules fragile non è qualcosa che mi capita spesso: proprio per questo, incontrando i suoi occhi scuri e lucidi di pianto, sento la gola contrarsi per la preoccupazione. Questa situazione è oltre le nostre possibilità: noi siamo tre ventiquattrenni - anzi, a dirla tutta Jules ne ha ancora ventitre - che giocano a fare le donne. Ma se la mia amica fosse davvero incinta?

“Che cosa faccio, ora?”

“Cerchiamo di stare calme.” le dico mentre Bet le sposta i ricci umidi di lacrime dal viso.

La mia richiesta non può che suonare ridicola, me ne rendo conto: nessuna donna al mondo di fronte ad un test positivo può mantenersi calma. Se poi la donna è una giovane legalmente adulta ma che della vita non ha ancora capito niente, il panico è la reazione più logica.

“Facile per te, non sei tu che porti in grembo il figlio di Cucciolo!” protesta giustamente lei, rabbiosa, asciugandosi una guancia.

“Questi test non sono sicuri al 100%!” cerca di tranquillizzarla Bet, ma la cosa non sembra rasserenare per nulla la nostra amica che, mettendosi a vagare per casa come un topo in trappola, puntualizza sconsolata:

“Lo sono per l’un sacco per cento, però.

Ecco, io la percentuale precisa non la conosco, ma un sacco per cento mi pare accurato. O, quantomeno, sufficientemente accurato da rendere il terrore sul viso di Jules più che legittimo.

“Sì, ma solo perché è uscito positivo non vuol dire che non possa esserci un errore, giusto Med?” risponde Bet, voltandosi verso di me e, d’un tratto, mi sento una merda ancora prima di aprire bocca, perché quello che ho da dire non piacerà a nessuna delle due. Non piace neppure a me.

Non essendo dell’idea di ricevere un sicuro insulto, quindi, resto in silenzio, causando evidente fastidio ad entrambe.

“Giusto?”

Okay, io sono la scienziata delle tre, quindi è giusto che metta la mia ignoranza al loro servizio: sono la peggior biologa della storia e chiedere un parere a me su qualcosa di scientifico è come domandare a un neonato di non rigurgitare post-poppata. È stupido e inutile.

“Veramente mi pare di aver sentito che i test di gravidanza possono dare falsi negativi, ma che falsi positivi sono rari.”

“Che cosa?!”

L’urlo angosciato delle mie due amiche è assolutamente all’unisono e, se mi posso permettere, è anche piacevolmente armonizzato. Ma questo è meglio che non lo dica.

“Cazzo, perché devi sempre peggiorare le cose?” sibila Bet.

Mi sento vessata: viene richiesto il mio scarsissimo parere professionale per poi rimproverarmi per aver diffuso la conoscenza. Echecazzo!

“Spiegati meglio, Med.” mi supplica Jules.

“Io non sono un medico né sono una grande esperta ma, da quello che mi risulta, sono test che evidenziano la presenza nelle urine dell'ormone gonadotropina corionica, che non esiste in una donna non incinta, ed è l'ormone prodotto dal trofoblasto nel momento in cui l'embrione si impianta nell'utero...”

“Non parlare strano. Usa una lingua umana o non tratterrò il mio istinto di prenderti a pugni!” mi rimprovera Jules. Io sospiro aprendo il suo pc, digitando “test di gravidanza positivo”, mentre cerco di spiegarmi meglio:

“In parole povere i falsi negativi possono esserci per tanti motivi. Tipo se lo fai troppo presto.”

“Oppure?” mi chiede Bet accucciandosi alle mie spalle e facendo scorrere gli occhi sullo schermo “Dai, ma cosa fai?! Lo chiedi a Google?”

“Ti sembro una ginecologa? Cercavo conferma... Diciamo che in linea di massima, da quello che so io, è molto raro un falso positivo, perché le cause sono più complicate e meno frequenti.”

Faccio scorrere le dita sul touchpad del pc di Jules: ispeziono ogni link che trovo, sperando di capire anche solo qualche parola e di trovare qualcosa a sostegno delle mie affermazioni. Sono sicura che qualcuno mi ha spiegato perché i falsi negativi sono più frequenti, ma non ricordo proprio chi. Soprattutto non riesco a rimembrare i casi in cui era possibile avere un falso positivo. E noi ora avremmo davvero un sacco bisogno di un falso positivo!

Esaminando la seconda pagina del motore di ricerca, sento Jules bofonchiare:

“Ti detesto quando fai la saccente!”

Poi la mia amica mora torna triste, sussurra: “Non posso essere incinta!”

Il silenzio si diffonde denso come la paura: per me e Bet è l’apprensione di non poter aiutare una delle persone più importanti della nostra vita. Per Jules il terrore di dover prendere una decisione. O di non poterla prendere. L’inquietudine di non sentirsi la donna che la vita la chiama ad essere. L’angoscia di ritrovarsi da sola a portare questo peso.

È un silenzio protratto più a lungo di quello che io posso tollerare e allora, nella speranza di risvegliare la mia amica dai suoi pensieri, le appoggio una mano sul ginocchio, suggerendo piano:

“Proviamo a farne uno nuovo. Poi, in caso, lunedì chiamiamo il ginecologo, okay?”

Lei annuisce con aria un po’ assente; alzandosi in piedi, si avvia verso il bagno e noi la seguiamo.

Una volta chiusa la porta alle mie spalle, Jules prende la scatola del test e me la porge, estraendo prima il bastoncino bianco che potrebbe confermare i nostri timori.

Facendo girare la confezione tra le mani, mi stupisco di trovarla ammorbidita e umida: controllo il ripiano su cui era appoggiata, ma sembra perfettamente asciutto, il che mi confonde ancora di più.

Inizio ad ispezionare attentamente il contenitore, cercando qualche scritta che possa illuminarmi mentre le mie amiche cominciano a battibeccare sull’indecenza insita nel fatto che Jules faccia pipì quando noi siamo nel bagno.

“Ma pensi di farla con noi due qui dentro?”

“Beh, capirai, lo faccio sempre!” risponde Jules sbottonandosi i pantaloni senza farsi sfiorare dal disgusto che avvolge la voce della nostra amica bionda.

“Che schifo, non puoi farla in un bicchiere e poi intingerci il test?”.

“Cioè, vorresti che facessi la pipì in un bicchiere in cui un giorno tu potresti bere e che ci lasciassi dentro per tre minuti questo candido stick, mentre noi restiamo a osservare il colorito delle mie urine per il tempo necessario a confermare che sono gravida?”

“Oddio, potrei vomitare!”

“Quindi posso farla?” domanda Jules inarcando le sopracciglia.

“Se ti pisci sulla mano giuro che mi sento male.”

Durante la loro discussione però i miei occhi restano fissi sulla scritta grigia quasi illeggibile sul lato della confezione che Jules mi ha passato.

“Jules, dove hai preso questo test?” chiedo attirando l’attenzione su di me.

“In farmacia.” ribatte lei calandosi i pantaloni e fissandomi come se fossi stupida.

Bet continua a dare alla nostra amica della schifosa guardandola di sottecchi, ma Jules non si lascia sfiorare: si siede sul wc, poi scarta il test dalla busta in cui è conservato.

“Sì, questo mi era chiaro, solo...”

“Sta zitta, devo fare la pipì su un bastoncino, mi serve concentrazione.” mi fa notare lei, zittendomi.

Perché nessuno mi lascia parlare? In questa scatola ci sono molte cose che non vanno e se ho ragione io, Jules è una vera demente.

“Jules...”

“Med, taci, non riesco a farla se parli.”

“È che...” provo un’ultima volta, cercando di porre fine alla ridicola serie di avvenimenti che potrebbe essere in atto, ma Bet si spazientisce. Forse solo desiderosa di vedere Jules riabbottonarsi i pantaloni, spingendomi fuori dal bagno protesta:

“Okay, basta, Med esci. Questa cosa è già abbastanza lunga.”

Poi si premura di sbattermi la porta in faccia, intenta a comunicare a Jules che se non la fa entro tre secondi si procura un catetere e ci pensa lei.

Vomito.

Girando sui tacchi rassegnata, tento di capire il mistero nascosto dietro la scatola che ho in mano. Mi dirigo verso la cucina per procurarmi qualcosa da bere che aiuti le mie facoltà cognitive, quindi contemplo la confezione intravedendo dei numeri nella scritta sbavata: accarezzando il cartone umido mi rendo conto che dove c’è l’inchiostro i numeri sono anche incisi e, aprendo il frigorifero di Jules per prendermi una coca, muovo l’oggetto per capire cosa ci sia scritto. Spostando lo sguardo all’interno dell’elettrodomestico, la mia attenzione finisce dritta su una scatola identica a quella che ho in mano.

Che è in frigorifero. Lo ripeto: in frigorifero.

Lo stupore sul mio viso diventa disapprovazione quando, abbandonata l’idea della bibita, avvicino a me la confezione ancora intatta e trovo, nello stesso punto in cui è stampata quella sbavata sull’altra scatola, una scritta chiara e pulita.

Jules è una grossa, grossa testa di cazzo.

Le mie amiche spalancano la porta del bagno proprio mentre richiudo lo sportello del frigorifero, ormai più che certa della stupidità che ha invaso il cervello di Jules in questa circostanza.

“Allora?” domando incrociando le braccia e lasciando che sul mio volto troneggi un'espressione indifferente quando Jules biascica:

“Non è chiaro…”

“Ti spiace elaborare?”

“Dice non interpretabile…” ribatte lei avvicinando lo stick al viso per esaminarlo meglio.

“Che significa non interpretabile?! O c'è la linea del positivo o non c’è…”

Questa del non interpretabile mi giunge nuova: ma perché nel nostro secolo anche i Test di gravidanza si devono complicare? Una volta era una questione di linee: una o due. Positivo o negativo. Punto. Niente fronzoli e niente terze possibilità di discutere di massimi sistemi. Se anche il test di gravidanza deve mostrarsi dubbioso sulla sua capacità di analizzare la tua urina, una che lo fa a fare? Cioè, il caso di Jules è traviato dal suo essere un'inetta, ma a sentire non interpretabile sembra che abbia chiesto alla Magica Palla 8 di dirle se diventerà mamma.

“Palla, il mio utero s'è fatto casetta per un marmocchio?” “Concentrati e rifai la domanda.”

Per rispondere alla mia confusione, Bet fa girare il bugiardino tra le mani e lo dispiega con cura, leggendo ad alta voce:

“Se la linea compare a sinistra il risultato non è interpretabile.”

“Oh, ma sta venendo fuori anche la linea di destra!” la interrompe Jules con voce tonante che reca una comprensibile nota di panico assoluto; la mia amica bionda mi lancia in faccia il foglietto illustrativo prima di afferrare il test con forza ed esaminarlo come se lei fosse un membro della Scientifica.

“Come cazzo è che prima mi dice che non lo sa ma ora mi accusa di essere inguaiata?”

“Strano davvero, mi chiedo cosa sia successo…” sibilo io accartocciando il foglio e spostando gli occhi da Jules a Bet, consapevole che nessuna delle due si sia fatta un'idea del perché il test stia dando i numeri.

“Jules, l'hai rotto!”

“Ma cosa dici?!”

Cominciano a strillarsi in faccia l'un l'altra, ignorando la mia presenza e dando il via ad una delle loro delicate liti a base di insulti; per una volta mi posso godere lo spettacolo.

“Per forza, dai! Qui non c'è scritto da nessuna parte che può segnare sia positivo che non interpretabile!”

Ah, questo test non contempla neanche il negativo? O sei gravida, o lui non lo sa? Ma che cazzo di test è?

“Leggi bene… ci deve essere per forza! Sei tu che sei analfabeta: non sai leggere neanche le istruzioni."

“Almeno io so usare i contraccettivi!”

“Imbecille, non è un iPad… i test di gravidanza non si rompono!”

A questo punto Jules ha assunto una colorazione tendente al fucsia, mentre Bet si è messa ad agitare le sue dita porcelline come eliche; poi si blocca come se le avessero spento un neurone e, con lo sguardo perso, biascica:

“Ehi, magari c'è un’applicazione che funziona come test di gravidanza…”

Alla sua affermazione mi rendo conto che, se non intervengo, Jules potrebbe soffocare Bet ostruendole la gola con lo stick. Quindi senza esitazione, attiro i loro occhi su di me esclamando:

“No, non si rompono.” incrocio lo sguardo di Jules “Ma scadono, deficiente!”

Il silenzio diventa la miglior ricompensa che potessi sognare; unito ai loro sguardi da triglia, mi regala i miei 20 secondi di gloria: se non fosse per il fatto che il dubbio che Jules possa comunque essere incinta sussiste a prescindere dal suo test scaduto, a questo punto potrei assaporare il gusto della vittoria. Ma - in qualche misura - so che non abbiamo ancora esorcizzato il fantasma della gravidanza e, se provo a mettermi nei panni dalla mia amica, mi vengono le vertigini: ad essere onesta mi vengono in ogni caso. Jules non può essere incinta.

Guarda, Dio, non è davvero il caso, credimi.

“Che vuoi dire?” la voce della riccia di fronte a me vibra di una ritrovata speranza e i suoi grandi occhi nocciola mi fissano intensi e confusi.

“Voglio dire che questo test di gravidanza è scaduto nel 2008, vale a dire quattro anni fa, rincoglionita!”

“2008?” mormora Bet stupita.

“Sì. Jules, quando cazzo hai comprato questo test?”

“Chi se lo ricorda! Ho pensato che averne qualcuno a portata di mano fosse utile. Sai, nel caso ne avessi avuto bisogno.”

“Sì, idea fantastica. Peccato che questa idea tu non l’abbia rinnovata di recente. Il test è scaduto, quindi può essere che non abbia funzionato in nessuno dei due casi!”

“Ma io come facevo a saperlo?”

“Per esempio controllando la data di scadenza e soprattutto non conservandolo in fondo al frigorifero.” le faccio notare, sventolandole la scatola davanti al viso.

“In frigorifero?” si indigna Bet “Jules, quello non l’avrei mai fatto neppure io!”

“Mia madre tiene sempre le medicine in frigorifero!”

“Dipende dalle medicine... e questo è un test, non un fermento lattico.”

“Senti, è molto probabile che il primo test che hai fatto abbia dato un falso positivo, visto che questo test non è più valido, e dato il risultato del secondo.” dico sospirando. Bet si fa più vicina a me, piantandomi un dito accusatorio sulla tetta, mentre afferma:

“Med, tu non ne sai un cazzo di queste cose…”

Sì, beh, pensavo che la mia ignoranza fosse stata assodata durante i primi quaranta secondi della nostra conversazione, ma non credo che per leggere una data di scadenza sia necessario essere informati.

Jules sembra contemplare l'affermazione di Bet per qualche secondo e la cosa mi indigna non poco: insomma, non sono un genio della scienza, ma non sono certo io quella che ha pisciato su due test di gravidanza scaduti!

Bet si allontana in direzione della sua borsa, estraendone l'iPad di J, che lei, appena può, ruba.

“Chiamiamo Leo.”

“Perché?! Non serve Leo per capire che se un test è scaduto da quattro anni è il caso di rifarlo…” puntualizzo con voce scocciata, venendo prontamente zittita da Jules che, sollevando una mano, afferma:

“Sì, ma tu di queste cose non capisci niente. Ci serve un parere informato. E meno stronzo…”

Borbottando irritata, mi siedo accanto a Bet che nel frattempo si è appollaiata sul divano e ha acceso Skype, cliccando prontamente sul contatto di Leo, segnalato come online.

Due squilli più tardi il viso scompigliato del nostro amico compare in tutto il suo splendore sul display dell' iPad: ci fissa contorcendo il viso  avvicinandosi il più possibile allo schermo un paio di volte.

Poi si ritrae a distanza ragionevole, si leva gli occhiali e comincia a massaggiarne le lenti col bordo della sua maglia rossa, dicendo:

“Oh, guarda, ho aperto il pc per guardarmi un porno e mi sono ritrovato un horror. Avete delle facce mostruose.”

“Tu guardi i porno?”

Mi rendo conto che sia una cosa piuttosto in voga tra i ragazzi, ma questo è un particolare che non avrei voluto sapere; personalmente chiuderei qui la faccenda, ma le mie amiche sembrano essere di un parere diverso. Bet inizia un dialogo che ha del surreale, domandando:

“Con Skype acceso?”

“Ho anche la luce accesa, se è per questo…”

Io persisto nel provare un enorme senso di disgusto, ragion per cui lo paleso, borbottando:

“Che schifo, guardi i porno.”

“Li guardano tutti. Li guardo anche io.”

“Ovviamente, Jules…”

“Scusa ma se ti chiama qualcuno mentre sei lì col pipino…”

“Bet, smetti di parlare…” la minaccio, cercando di porre fine al dialogo delirante che si sta palesando di fronte a me, ma ottenendo in risposta solo un terzo dito, accompagnato dal solito Tu devi scopare di più.

Fortunatamente Leo sembra averne avuto già abbastanza di noi tre, quindi, inforcando gli occhiali, chiede spazientito:

“Che succede?”

“Cosa ne sai di test di gravidanza?”

“Perché?”.

Momento di silenzio.

“Ditemi che nessuna di voi si è fatta ingravidare…”

Noi tre optiamo per tacere, mostrandogli le nostre facce di bronzo.

“Chi è l'imbecille?”

Io e Bet additiamo prontamente Jules senza spostare gli occhi dal display.

“Chissà perché pensavo fosse Med…”

“Sei piacevole come uno sbiancamento anale, Leo…”

“Ti sei fatta lo sbiancamento anale?!”

“Che vacca!”

“Non mi sono fatta lo sbiancamento anale, Jules... possiamo tornare sul motivo della nostra telefonata?”

Senza perdere troppo tempo Bet inizia ad esporre la situazione a Leo che, con aria professionale, ascolta ogni dettaglio, annuendo ma lanciando occhiate di rimprovero verso Jules.

“Ho sempre pensato che la più scema tra voi fosse Bet” afferma il mio amico affondando le mani nei suoi capelli neri “Grazie per aver confutato la mia tesi.”

Poi, per aggiungere carne al fuoco, con grandissima nonchalance Jules rivela l’ennesimo particolare che invalida il primo test, confessando di averlo fatto la mattina prima del servizio di catering senza aver avuto il tempo di controllare il risultato: ovviamente ottiene in risposta da noi tre un corale “Testa di cazzo”.

“Non avevi tre minuti per una cosa del genere?” domanda Bet spazientita e sconvolta dall’atteggiamento di Jules.

“No, perché Jack è arrivato prima per andare a prendere Med...”

“E non potevi portartelo dietro?”

“Avevo paura di leggere il risultato. Ho preferito rimandare l’angoscia alla sera...”

Tutta questa storia sembra una grossa presa per il culo; se non fosse per il ritardo nel ciclo, a questo punto credo che uno di noi si sarebbe assunto l’onere di prendere a sberle Jules fino a riattivarle le sinapsi.

Restiamo tutte in silenzio per qualche secondo, attendendo il verdetto di Leo con gli occhi fissi sullo schermo dell’ iPad.

“Sentite, odio dare ragione a Med, ma non c’è un solo motivo per considerare il test attendibile. Suggerisco che cerchiate una farmacia di turno e troviate il modo di rassicurarmi sul fatto che non dovrò assistere al parto di Jules...”

“Non vuoi?!” chiede la mia amica riccia, indignata.

“Se vedo la tua vagina viro all’omosessualità.”

“Almeno potresti dire di averne vista una...”

“Travestito.”

“Segaiolo.”

Bet e io restiamo in silenzio ad assistere al momento di alta intelligenza per qualche secondo; poi la bionda al mio fianco piazza una mano sulla bocca di Jules mentre, con stizza, annuncia:

“Finitela prima che mi incazzi sul serio. Ora, tu - ordina indicando Leo - grazie per l’aiuto. Torna pure alla tua pornografia. Un giorno ti cadrà il pisello…” quando Bet decide di diventare autoritaria fa un po’ paura. “Voi due alzate il culo e andiamo a comprare questi cazzo di test. Mi sta venendo l’emicrania.”

La frase si conclude con la mia amica che, alzandosi di scatto, si dirige verso la porta, seguita da una parzialmente sconvolta Jules.

“Devo andare prima che si trasformi nel Babao!” dico a Leo alzandomi in piedi e accingendomi ad interrompere la chiamata, ma lui mi blocca, chiedendo impaziente:

“Aspetta, pranziamo insieme in settimana?”

La proposta mi lascia perplessa, sia perché noi due pranziamo da soli in rarissimi casi, sia perché penso che il nostro equilibrio sia ancora troppo precario per sopravvivere a un pranzo a due. Ma so di dover fare uno sforzo e che non ho ragione per rifiutare: lui ha già fatto la sua parte, ora tocca a me.

“Volentieri… Chiamami tu che decidiamo dove e quando.” Rispondo esagerando un sorriso. Poi, salutandolo, corro fuori dalla porta per raggiungere le mie amiche.

Un’ora più tardi mi ritrovo nuovamente intrappolata nel gabinetto rosa di Jules, con un sacchetto stracolmo di confezioni di test di gravidanza pieno di stick che, grazie a Dio, segnano “negativo”.

Io non so se capita a tutte le ragazze di chiudersi nel bagno con le proprie migliori amiche per fare test di gravidanza in serie, ma questo evento mi segnerà per la vita. L’esperienza si è svolta in sequenza, tipo catena di montaggio, in cui io e Bet lanciavamo i test con frenesia, mentre Jules ci faceva pipì sopra e li gettava alle sue spalle, urlando:

“Veloci però, perché una volta che apro i rubinetti io non riesco a fermarmi."

Inutile dire che nella mia testa il tutto era accompagnato da Momenti di gloria come sottofondo musicale.

“Il tuo utero è salvo.” le dico sospirando.

“Cazzo ragazze che paura! Non sono pronta a diventare madre!” esclama lei sdraiandosi sul pavimento del bagno con lo sguardo fisso sul soffitto. “Credo di aver imparato una cosa importante.”

“Sarebbe?”

“Che non voglio il figlio di Cucciolo.” l’affermazione è quantomeno criptica e sottintende un’implicazione che non vorrei dedurre per libera interpretazione; per cui, inginocchiandomi accanto a lei, la incoraggio a spiegarsi meglio.

“Forse è il momento che faccia due chiacchiere col mio ragazzo.”

“Jules, secondo me stai esagerando. Hai appena avuto un’esperienza stressante, secondo me ti stai facendo sopraffare dall’irrazionalità."

“No, invece. È proprio la mia testa che parla al posto del cuore: lasciate stare i problemi relativi all’età, al fatto che sono immatura e non ho un lavoro... Ciò che mi tormentava più di tutto era il pensiero di dover dividere la mia vita con una persona inaffidabile come lui. Pensavo che il suo bambino io non lo volevo... Non è un bel pensiero quando stai con qualcuno da così tanto tempo."

“Stai dicendo che non immaginavi il tuo futuro con Cucciolo?” domando confusa dall’improvvisa epifania che sembra aver attraversato la mia amica.

“Sto dicendo che sentivo di non volerlo. Oppure sto solo dicendo stupidaggini ed ero solo fottutamente terrorizzata.”

Jules si solleva da terra con uno sforzo sovrumano, dondolandosi sul coccige come se fosse una tartaruga ribaltata sul carapace.

“Una cosa è certa: non farò più sesso fino al mio trentesimo compleanno.”

“Che ne diresti di darti ai contraccettivi?” suggerisce Bet raccogliendo tutte le cartacce che abbiamo sparso per il bagno mentre io mi trascino verso la porta, seguendo Jules in soggiorno.

“Secondo me sarebbe più semplice se non comprassi test del paleolitico, se non li surgelassi e se non li facessi quando non hai modo di guardare il risultato per ore.”

Quando, lasciandosi cadere sul divano, la mia amica si limita ad annuire con aria assente, io capisco che sta già stilando una lunga lista di ragioni per cui è il caso di rivalutare il ruolo di Cucciolo nella sua vita. Jules è così: si porta dietro pesi morti e realtà controproducenti finché non ci sbatte il muso così forte che inverte la rotta.

Ma quando inizia a soppesare qualcosa non la fermi più e sembra che lo spavento di stasera abbia fatto scattare qualche interruttore nel suo cervellino.

Diventa irrequieta per qualche minuto, sollevandosi dal sofà e riordinando ogni soprammobile posato nel suo salotto mentre io e Bet la lasciamo fare in silenzio fino a che, una volta che sembra essersi calmata, ci chiede di restare a dormire, accantonando completamente il problema e rifugiandosi con noi nel caldo della sua camera.

Sollevarmi dal letto di Jules si prospetta una delle cose più faticose l’indomani mattina, ma è domenica: volente o nolente, oggi non posso nascondere la testa nella sabbia.

Perché è domenica. Quella domenica. La giornata in cui mi recherò a casa dei miei per pranzo e dovrò decidere se sono donna abbastanza da ferire consciamente la mia famiglia.

Ho paura, è inutile negarlo: fino a ieri potevo comportarmi come se il tempo si fosse preso una pausa dallo scorrere, ma oggi non c’è più modo di rimandare a più tardi i pensieri.

Fare i conti con me stessa è qualcosa che ho procrastinato senza troppi problemi ogni giorno e, mentre abbandono l’appartamento della mia migliore amica, realizzo che non ho ancora idea di che cosa potrò dire ai miei genitori. La verità? La verità può essere relativa. Quella che per me è un dato di fatto, per un altro può essere un’enorme cazzata.

Ad esempio, ammettere che voglio lasciare l’università perché non sono portata per la biologia per me è stata una piccola conquista, ma sono piuttosto certa che, per i miei, sarà la peggiore delle sconfitte. L’ennesimo fallimento. Il peggiore. Ma la domanda è: leggendo la delusione nei loro occhi, cambierò idea anche io?

Infilo la chiave nella toppa di casa cominciando a pensare che continuerò a mentire un altro po’: non sarà un comportamento onesto o da figlia dell’anno, ma mi farà guadagnare un altro po’ di tempo. Io, di tempo, ne ho disperatamente bisogno.

Aprendo la porta, mentre i pensieri sui miei genitori mi ribollono tra le sinapsi, incontro il viso del mio coinquilino che, con la bocca colma di cibo, cerca di sorridermi senza far debordare il boccone che sta tentando di ingoiare.

Contorcendo la faccia in una smorfia poco affascinata, assorbo l’immagine di Alex che, seduto sul bancone della cucina, trangugia la sua colazione come se avesse i minuti contati: indossa ancora i pantaloni del pigiama e il suo torso è avvolto in una t-shirt color carta da zucchero.

Mi osserva curioso quando, levandomi la giacca, gli dico:

“Se mi ammazzi ora, dopo ti faccio un bonifico di 3.000 euro…”

Alex ammicca posando la forchetta: ha sempre l'aria di chi non sa proprio lasciarsi stupire dalle mie uscite idiote e, indicandomi, risponde:

“Nel tuo stato di morta?”

“Io tutto posso… anche da morta.”

“Lo farei serenamente, se non fosse per un piccolo impedimento…”

Parlando abbandona il piatto sul ripiano della cucina, scendendo dalla sua posizione sul mobile per procurarsi un tovagliolino con cui asciugarsi la bocca.

“Sono troppo grossa perché tu possa sbarazzarti del mio cadavere?”

“No… ora che mi ci fai pensare anche quello potrebbe essere difficoltoso… Ma io mi riferivo alla mia coscienza.”

“Tu non ce l'hai una coscienza.” ribatto allontanandomi dalla porta per avviarmi verso il bagno con il proposito  di rendermi almeno presentabile. Cosa che, tanto, per mia madre non sono mai. Alex mi fissa, seguendo ogni mio passo, cercando di decifrare i miei respiri: ormai ho imparato a capire quando sta provando a farmi un'ecografia all'anima o quando prova a leggere i miei pensieri, ma la cosa comincia a diventare meno molesta.

“Allora, riguardo al mio omicidio? Abbiamo un accordo?”

“No. Con i tuoi pidocchiosi 3.000 euro non ci pagherei neppure le spese legali.”

“Non ti serve un avvocato. Sei colpevole.”

“Solo perché mi hai incastrato!”

Il broncio sulle sue labbra è così comico che non riesco a trattenere una risata, sbattendo la porta del bagno e cercando di darmi una mossa.

Poco dopo mi ritrovo in camera, inveendo contro il mio armadio che sembra essersi inghiottito qualche mio indumento; Alex, attirato dal mio inquinamento acustico si materializza sulla porta, appoggiandosi allo stipite per ammirarmi mentre lancio per aria il 75% dei miei vestiti.

“Med?”

“Dove cazzo è quell’agghiacciante gonna?”

“Med...”

“L’avrò buttata. Ma io non butto mai niente... Deve essere qui.”

“Sofia.”

“Sono una accumulatrice compulsiva? Morirò soffocata dai miei orribili vestiti? Sarebbe ottimo: avrei un alibi per evitare le domande cretine delle persone che mi assillano...”

“Scintilla!”

Al suo richiamo mi blocco, voltandomi verso di lui e scrutandolo come se potessi spostarlo con la forza del pensiero. Non ce l’ho con lui, ma sono agitata: entrando per fare domande Alex si sta mettendo in pericolo. Una femmina isterica è una femmina che riversa la rabbia su tutto ciò che è vivo.

“Mi dici che cosa sta succedendo?”

“Devo andare a pranzo dai miei...”

“Fai sempre così quando ti invitano a mangiare? Perché hai l’aria di una psicopatica.”

“Alex... ti prego, lasciami preparare in pace. Ho fretta e sono nel panico.”

“Lo vedo. Mi spieghi perché?”

Lui e la sua faccia curiosa sono una splendida visione, non lo nego, ma non avendo tempo per la discussione riprendo a smistare gli innumerevoli capi sparsi sul mio letto - praticamente tutti di colore nero, ma che io distinguo al tatto. Purtroppo per me, però, Alex sembra volere una risposta: mi afferra per la coda e mi tira delicatamente verso di sé.

“Cosa fai? Violenza domestica!”

Il ragazzo alle mie spalle mi ignora e mi invita a voltarmi verso di lui, accarezzandomi la testa e scrutando serenamente nei miei occhi isterici:

“Pranzo dai tuoi. Elabora, Scintilla...”

“Vogliono discutere la mia attuale situazione accademica.”

Forse se gli dico la verità si leva dalle scatole.

“Ah, ora capisco...”

“Capisci?” domando stringendo le dita attorno al suo polso per allontanarlo dai miei capelli.

“Capisco perché ti sei trasformata in un mostro psicopatico e capisco che, se ci tengo alla vita, devo uscire da questa stanza rapidamente.” risponde dandomi una pacca sul sedere e facendo dietro front per avviarsi verso la porta.

“Tutto qui?”

“Sì, tutto qui. Tu sei polemica e pure parecchio stronza. Io alla mia vita ci tengo. Preferisco ricordarti sexy e accaldata come ieri, piuttosto che pazza e sanguinaria.”

Alla menzione del nostro incontro di ieri le mie ovaie fanno qualche scintilla; per un attimo penso che il sesso mi permetterebbe di allentare la tensione: però, con tutta la fatica che abbiamo fatto, preferisco dedicarmi a quella attività con Alex quando non sono in preda al panico e non mi sento Ursula, la strega de La Sirenetta.

Il mio coinquilino pone fine ad ogni scambio verbale abbandonando tranquillo la mia stanza in favore della sua. Per quanto stupita sia dalla sua remissività che dalla facilità con cui è evaporato, ne sono davvero contenta: il tempo stringe e Alex è una distrazione piacevole ma, in questo istante, sconveniente.

Arresa all’idea che, indipendentemente da ciò che indosserò, mia madre avrà da ridire, mi infilo un anonimo vestito nero lungo fino al ginocchio, accoppiato ai miei inseparabili leggings contenitivi Calzedonia - che pushano anche l’utero ad altezza polmoni - e mi rassegno al mio destino, portando le mie nervose membra alla porta di casa.

Alex, sentendomi abbassare la maniglia, si sporge solo con la testa fuori da camera sua:

“Ci vediamo più tardi, Scintilla.”

“Devi uscire?”

“No...”

“Mi aspetti qui?”

Non so perché, ma so che vorrei tanto trovarlo qui al mio ritorno: per un secondo temo di essermi rammollita, poi lui annuisce dandomi uno strano senso di conforto e allora ne ho la conferma. Sto perdendo i colpi.

“Devo andare.”

“Okay...”

Esco dalla porta, mi volto nella sua direzione un’ultima volta, implorando:

“Dimmi che andrà bene.”

“Andrà. Punto. Prima ci vai, meglio è.”

“Sei una merda come life coach...”

“Infatti faccio il cuoco.”

Cosa me ne faccio di un maschio che non riduce le mie ansie non lo so, ma sono troppo in ritardo per farmi trascinare in un’altra conversazione con Alex; insoddisfatta, chiudo la porta alle mie spalle mentre la risata di Alex mi saluta.

Quando entro nel cortile di casa dei miei la prima cosa su cui poso gli occhi è la macchina (praticamente sfigurata dalle ammaccature in ogni dove) di Michele e, appoggiato al cofano, intento a giocare col suo smarphone, se ne sta mio fratello: jeans, felpa rossa col cappuccio, con una scritta gialla stile cartoon che recita Bazinga!, Tiger bianche che hanno visto giorni migliori e espressione indifferente. È conciato come un barbone, come ogni volta: a dispetto dei suoi trent’anni, sembra essersi vestito da 012. Ma mio fratello è così: intellettuale e lontano da ogni convenzione.

Parcheggio dietro di lui e, scendendo dalla macchina, il rumore delle mie scarpe contro la ghiaia sembra distrarlo dal suo telefono perché pochi secondi dopo fa scivolare l’oggetto nella tasca posteriore dei pantaloni, voltandosi verso di me:

“Ciao fratello...”

“Potresti chiamarmi Sheldon.”

“Ti sei dato al role playing di The Big Bang Theory?”

“No, penso solo che si siano ispirati a me per quel personaggio.”

“Per i disturbi di personalità o per la possibile forma di autismo?”

Lui sceglie di non cedere alla mia provocazione e si avvia insieme a me verso la porta di ingresso.

“Controllavi la posta, Fisico teorico di ‘sto cazzo?”

Sì, io non riesco a prendere una laurea triennale in Scienze Biologiche ma ho un fratello laureato con menzione d’onore in Fisica.

“No, giocavo ad Angry Birds...”

“Non capisco come abbiano potuto dare la laurea a uno come te.” borbotto infilando in borsa le chiavi della Circe. Mio fratello, assoluto sostenitore del concetto "la scuola italiana fa schifo", affonda le mani in tasca, rispondendo serio:

“Perché in questo paese di vecchi danno troppa importanza allo studio e troppo poca al cervello delle persone. E io di cervello ne ho tanto. Il titolo è irrilevante, mi ci pulisco il culo con quello. Il mio valore lo dimostro con i dati, non con i pezzi di carta.”

Di che dati stia parlando non ne ho idea, visto che del suo lavoro io non ci capisco nulla, ma resta il fatto che almeno lui il pezzo di carta l’ha preso. Facendo, tra l’altro, sfigurare me, fatto di cui spero un giorno di farmene una ragione.

Evitando di proseguire il dibattito, allungo la mano per suonare il campanello, ma lui mi ferma prontamente afferrandomi un polso.

“Aspetta, ti devo parlare.”

Negli ultimi cinque anni Michele e io abbiamo trovato una specie di equilibrio, basato su un rispetto reciproco probabilmente dovuto al fatto che non siamo più due ragazzini, ma il nostro rapporto raramente implica momenti di confronto intimo e, quando succede, non è mai un buon segno.

A nessun secondogenito piace doversi sorbire la paternale da parte dei fratelli maggiori. A nessuno. È umiliante: ti fa sentire doppiamente in difetto e sotto esame.

“Senti, sei consapevole del perché di questo pranzo, vero?” mi chiede sicuro, senza mostrare troppa preoccupazione.

“Sfortunatamente sì; devo anche ammettere che vederti qui oggi mi lascia un po’ perplessa.”

Pensavo che lui fosse dalla mia parte, o almeno lo speravo. Ma il fatto che sia qui mi fa temere il contrario.

“Perché non hai afferrato che io sono qui per aiutare te.”

“Che vuol dire? Non è una guerra, non ho bisogno di aiuto...”

Stronzate, ne avrei bisogno eccome.

“Se io fossi al posto tuo lo sarebbe. Io non soccomberei così. Ma tu, diversamente, cerchi sempre di accontentarli per non doverli contraddire."

La voce di mio fratello lascia trapelare un lieve disappunto, ma i suoi occhi mi sfidano a trovare il coraggio di contraddirlo, cosa che - ovviamente - non posso fare.

Fisicamente Michele è una specie di copia testosteronica di me (anzi, lui direbbe che io sono la brutta copia di lui, perché lui è nato prima): ha solo i capelli più corti, qualche pelo più folto e trenta cm in più di altezza.

Ah,  non ha neppure il culo grosso come il mio: lui ha delle caviglie da ballerina fenomenali e si vanta spesso delle sue mani nobili, affusolate come quelle di tutti i chitarristi. Sì, mio fratello ha anche ereditato il gene artistico di mio padre, quindi suona divinamente oltre alla chitarra – in ogni sua forma o declinazione – altri tre strumenti, tra cui il sax tenore, che ho cercato di fregargli più volte, rischiando l’embolo perché non sapevo come suonarlo e sputacchiandoci dentro.

Sono certa ritenga che parte della sua genialità risieda nell’armonia dei propri arti. Ma i suoi occhi sono lo specchio dei miei: stesso taglio, stesse espressioni, solo che i suoi sono color cioccolato, non verde insipido.

“Per te è facile, tu consideri sempre solo te stesso, io non posso fare come te.”

“Smetti di condurre la tua vita in base a quello che rende felici gli altri!” afferma estraendo un pacchetto di Marlboro Medium morbide dalla tasca destra dei jeans per portarsene una alla labbra, offrendone un’altra a me e accendendole rapidamente con il suo adorato zippo.

“Non posso entrare in quella casa dandogli una delusione del genere...”

“Ma tu quella laurea non la vuoi!” la sua voce si alza impercettibilmente per un attimo, prima che sospiri profondamente e aggiunga:

“Una volta varcata quella porta io non dirò nulla, a meno che non sia strettamente necessario... Però una cosa te la dico ora: se continui così finirai per deludere sia te stessa che loro.”

Mio fratello tira una lunga boccata di sigaretta, restando in attesa di una mia risposta, ma più lui parla, più mi rendo conto che non riesco a fargli comprendere perché per me è così difficile.

“Michele, tu non capisci...”

“Dici sempre così, però poi non cerchi mai di spiegarti.”

Alla sua affermazione mi gelo. Se sei mesi fa mi avessero detto che avrei avuto una conversazione del genere con mio fratello probabilmente mi sarebbe venuto il singhiozzo per lo stupore: il problema è che lui ha ragione. Parlare della cosa in generale mi crea un disagio così prepotente che la fuga è la soluzione più facile. Ovviamente questo implica non spiegare neppure le mie ragioni: insomma, io se devo evitare lo faccio per bene, non certo a metà.

Come può mio fratello, così orribilmente bravo in quello che fa, capire che io sono così incapace da non riuscire neanche a finire una banalissima triennale in Scienze biologiche? Soprattutto come gli spiego che manco di attribuiti al punto di non riuscire ad ammettere che sono così limitata. E inferiore. E stupida. E inutile.

Come dici a tuo fratello, Fisico teorico, che magari si aspettava tante cose dalla sua sorellina stronza, che tu hai fallito?

“Sofia, posso chiederti una cosa? Hai sempre detto di voler essere medico, ma il perché me lo sai spiegare?”.

È una domanda talmente semplice, eppure non me l’aveva fatta nessuno. In realtà non me lo sono posta neppure io, il quesito; mentre guardo negli occhi consapevoli di mio fratello, mi trovo a ipotizzare che fare il medico non fosse neanche un sogno. Forse era solo un modo diverso di fuggire. Era una risposta facile e sicura. Era uno scudo conforme alle aspettative per non dover chiedere a me stessa cosa cazzo sapevo davvero fare. E adesso, che sono costretta a chiedermelo, mi trovo a non averne idea. Butto la sigaretta fumata solo a metà, quasi in segno di resa. Poi, evitando il suo sguardo, borbotto:

“No, non credo. Probabilmente non è mai stato quello che volevo.”

“E allora sai cosa devi fare.” sentenzia pacifico e sospetto che le cannette che si faceva all’università con i suoi amici nerd abbiano avuto effetti devastanti sui suoi neuroni geniali.

“Potresti essere più prolisso, sai, per noi umani...”

“A te della scienza non te ne frega nulla. Sai di cosa ti sento parlare con passione? Di libri, di musica, di cinema...” mi spiega lui, ma io lo interrompo, dicendo:

“Quelli sono hobby!”

“Chi l’ha detto che da un hobby non può nascere una professione?” mi domanda sicuro di ogni parola, per poi proseguire dicendo:

“Senti, non per essere crudo, ma tu stai alla scienza come il ciclo sta ad uomo.”

“Beh, ma fai cagare!” protesto alla sua equazione, ma lui prosegue senza mostrare considerazione per il mio disgusto.

“Fatti un paio di domande e smetti di lasciar decidere loro per te.”

Poi, senza darmi modo di lamentarmi per l’ennesima volta della mia terribile situazione, spalanca la porta di casa dei nostri genitori annunciando:

“Madre, Favorite Son è giunto a te! E ha un sacco voglia di cotoletta.”

Mio fratello è una fogna.

Continue Reading

You'll Also Like

29.9K 884 16
Isabella Bianchi é una ragazzina italiana di diciassette anni , frequenta il liceo scientifico di Roma. Isabella é una ragazza normale come tutte le...
31.5K 1K 42
Chiara Afilani vive a Torino da quando ha iniziato studi più approfonditi per il lavoro che voleva fare da quando era bambina. Dopo sforzi e sacrific...
40.1K 1.2K 59
La storia di una ragazzina italiana, Allison, che all'età di 4anni è stata adottata dalla famiglia Yamal, una famiglia spagnola di Esplugues de Llo...
75.5K 2.1K 30
Amira Yamal, sorella gemella della stella del Barcellona Lamine Yamal. Cresciuta nei quartieri della Catalonia, ha sempre avuto un rapporto strano co...