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By zaystories_

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! TW: violenza, abuso sessuale, morte/omicidio, dipendenze, disturbi psichici, aborto, autolesionismo. «Non m... More

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Informazioni e TW
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Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
EXTRA - La lettera di Nate Cross
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30 (pt. I)
Capitolo 30 (pt. II)
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
EXTRA - Ava
Capitolo 37
Capitolo 38
EXTRA - Nora (pt. I)
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
EXTRA - Lewis
Capitolo 44
EXTRA - Dom
Capitolo 45
Capitolo 46
EXTRA - Lydia
Capitolo 47
Epilogo
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EXTRA - Nora (pt. II)

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By zaystories_

Worcester, Massachusetts, 1978

Un anno.

Trascorse un intero anno da quando Nate, quella notte, mi abbandonò per le strade del Bronx di Bogotá per fuggire negli Stati Uniti e ritrovare suo padre. Di come stesse procedendo la sua impresa, però, io non ne sapevo nulla. Dopo essere sparito in direzione dell'aeroporto, ignaro di quale volo avrebbe preso e di dove sarebbe atterrato, aveva troncato ogni contatto con me.

La mia vita era rimasta vuota, la mente apatica ma sofferente per la sua assenza.

Durante quei mesi, tra i membri del cartello si era parlato solo della repentina scomparsa di mio padre. Era stato arduo cucirsi la bocca ed evitare di far trapelare anche il più insignificante particolare riguardo la sua morte, ma mi impegnai per salvaguardare la mia posizione e, soprattutto, la libertà del mio fratellastro, che avrebbe rischiato il carcere a vita dopo quell'omicidio e le attività illecite che l'avevano preceduto. Quindi ero rimasta lì, chiusa in un silenzio opprimente, a occuparmi con meticolosa attenzione di tutte le questioni del narcotraffico, anche se il cognome che portavo mi stava schiacciando con il suo peso gravoso.

Fin dal primo istante, avevo coltivato il desiderio di fuggire dalla Colombia senza lasciare traccia alcuna, ma era risultato impossibile e il motivo non era stato solo il mio legame indissolubile con la droga. L'operazione condotta a Medellín un anno prima, infatti, mi era costata nove mesi di tortura, perché avevo portato in grembo il figlio di un Gaviria*. A fregarmi fu il nostro amplesso privo di protezione. Una volta partorito nelle peggiori condizioni, decisi di liberarmi del neonato riportandolo al padre, dopo un viaggio in macchina che durò allo stremo, tra pianti e rigurgiti. Voci di corridoio dicevano che il bambino fosse stato chiamato Hélmer*, e che di lì a qualche anno avrebbe tenuto le redini di uno dei cartelli più potenti e influenti di tutto il territorio colombiano.

Eppure, in quella notte cheta e poco sospetta, riuscii ad arrivare negli Stati Uniti per realizzare l'unico mio obiettivo: ritrovare l'unica persona che io avessi mai amato e riprendermi ciò che mi era appartenuto fin dal primo istante. Bramavo amore e controllo, ma era trascorso un intero anno da quando entrambi mi erano stati strappati via.

L'unico volo disponibile era per Boston, sulla costa orientale. Ma una volta atterrata lì, la grandezza della metropoli mi era parsa soffocante, insieme all'insistenza degli sguardi della miriade di persone. Lì, al Nord, i sudamericani non erano sempre i benvenuti.

Sentivo il disperato bisogno di tranquillità, di un luogo in cui nessuno mi conoscesse, così salii sul primo autobus diretto verso una cittadina poco distante. Fu così che, mentre il sole iniziava a calare dipingendo sfumature calde nel cielo, quella sera stessa mi ritrovai nel centro di Worcester.

Non conoscevo una singola via di quel luogo. Alcune macchine sfrecciavano per le strade, probabilmente di ritorno dal lavoro, e il venticello fresco che soffiava dall'oceano ormai distante mi carezzò la pelle vestita di stracci, oltre a portarsi via decine di manifesti colorati. Passeggiando senza meta, ne afferrai uno: tra i bordi consumati spiccavano lemmi inveenti contro l'Unione Sovietica, a dimostrazione della tacita guerra che si combatteva con i territori oltreoceano.

Lo lasciai cadere sul marciapiede, in preda a uno sbuffo di arrendevolezza. Parte dei miei soldi era già stata sperperata per quel viaggio senza meta; io ero sola nel Massachusetts e ignara di dove cercare Nate.

Per quella sera, però, volli obliarmi di tutte le preoccupazioni che mi attanagliavano lo stomaco. Passo dopo passo, il cielo cominciava a scurirsi e le insegne di locali e negozi erano le uniche luci che accompagnavano i lampioni. Tra tutte spiccò quella rotonda del Pint, con il suo contorno bianco illuminato, quindi vi entrai. Era un bar semivuoto, in cui riecheggiava solo il sottofondo di un motivetto rilassante e il tintinnio di bottiglie e bicchieri. Le luci soffuse conferivano calore alla sala, soprattutto alla zona del bancone, così decisi di sedermi a quest'ultimo. Gomiti puntellati sulla superficie, mi guardai intorno: a qualche sgabello da me sedeva un ragazzo solo, con l'esclusiva compagnia di un bicchiere di liquido ambrato e cubetti di ghiaccio. Piccole onde di capelli castani gli incorniciavano il viso chiaro e lentigginoso, le ciglia scure gli adombravano le guance e il suo profilo era un insieme di linee decise, ma disegnate con grazia. Era l'incarnazione della purezza annientata dalle sorsate di alcol che ingeriva di tanto in tanto.

«Buonasera», mi accolse una ragazza. Quando mi voltai, la vidi sorridere nella sua innocenza. Non avrà avuto chissà quanti anni in più di me, ma sembrava molto più viva e ingenua, ignara delle insidie della vita stessa. «Cosa ti preparo?» mi domandò.

Feci scorrere lo sguardo su tutte le bottiglie di alcolici esposte alle sue spalle, su una mensola ben ordinata. «Fammi un Negroni» risposi, la mia voce che uscì in una frase monocorde.

La vidi annuire, poi fece per voltarsi e preparare il cocktail. Non fece in tempo, però, perché fu fermata dalla voce bassa e roca del ragazzo che sedeva a qualche metro da me.

«Debby», richiamò la ragazzina. «Puoi riempirlo un altro po'?» le chiese, spostando il bicchiere umido di condensa nella sua direzione.

«Vuoi altro whisky?» mormorò lei, incerta sul da farsi. Da come pose il quesito, sembrò scioccata dalla richiesta. Chissà quanto aveva già bevuto, pensai.

«Perché accontentarti del whisky, quando puoi prendere un Old Fashioned?» mi intromisi. Il mio inglese suonò strano, contaminato dall'accento spagnolo, ma il mio interlocutore non sembrò prestarvi attenzione. Mi guardò incuriosito, tanto che io proseguii: «È più forte e sicuramente più buono».

«Abitudine» replicò, facendo spallucce. La ragazza – Debby – fece da spettatrice a quello scambio repentino di battute, osservandoci confusa. Il ragazzo, tuttavia, pareva introverso, frenato da una certa ritrosia che lo trincerava in se stesso. «Ma non sono uno che rifiuta i consigli» dichiarò, poi, e un ghigno mi si dipinse in volto.

Quindi gettai un'occhiata a Debby, sorridendole con cordialità. «Fagli un Old Fashioned, offro io».

La ragazza annuì e si voltò per mettersi al lavoro e soddisfare le nostre richieste. Nel silenzio da lei lasciato, mi alzai appena dallo sgabello per scivolare su quello direttamente accanto al mio interlocutore – e allievo riguardo i migliori cocktail. Mi squadrò, ancora rifugiato nella sua palese timidezza, e io gli arrisi per metterlo a suo agio.

Aveva l'espressione ingenua di chi era facile da controllare. E io, che il controllo l'avevo perso una volta, sognavo di poterlo riavere in qualunque maniera possibile.

«Non ringraziarmi, bere un buon cocktail è il primo passo per stare bene» proferii, con un gomito poggiato sul bancone e una mano a sorreggermi il capo, il pugno chiuso piantato contro una guancia. La stessa mano che tolsi, raddrizzando la spina dorsale e recuperando la mia altezza, che risultava comunque scarsa se rapportata alla sua. Distendendo le dita, le puntai nella sua direzione. «Piacere, sono Nora».

Lui mi concesse una stretta breve e decisa che siglò la nostra conoscenza. «Sono Blake», rispose. Blake. Un suono morbido che gli scivolava dolce sulla lingua, carezzandogli le labbra rosee umide d'alcol. «Non sei di qui, vero?» indagò.

«Colombia», confermai con fierezza. Anche se la mia terra aveva iniziato a soffocarmi, non mi sarei mai dimenticata dell'amore che provavo per Bogotá. «Parece que se entiende», scherzai.

Lui alzò le mani in segno di resa. «Qualsiasi cosa tu abbia detto, hai ragione».

«Ho sempre ragione, Blake» tessei le mie lodi.

Interrompendo il nostro sereno scambio di battute, Debby piombò da noi e ci lasciò due bicchieri umidi sotto il naso. Il mio, dal contenuto più scuro, e quello di Blake, aranciato; in entrambi, piccoli cubetti di ghiaccio galleggiavano in superficie.

Il moro al mio fianco lo afferrò, serrandolo fra le dita forti, e lo alzò a mezz'aria. Invitandomi a unirmi al brindisi con un sorriso bonario, poi, pronunciò un: «Spero che tu possa accettare questo banale ringraziamento per il tuo prezioso consiglio».

Replicando i suoi movimenti, anch'io agguantai il bicchiere e lo sollevai. Il bordo del mio sfiorò quello del suo, ma non così tanto da toccarlo. Quindi scrutai la sua espressione, rilassata dall'effetto dell'ebbrezza ma segnato da una dolce e sincera bontà, fedele compagna di un animo ingenuo. Nelle sue iridi screziate di verde, scorsi la possibilità di riavere qualcosa tra le mani. Qualcosa di stabile, qualcosa di mio.

Mi riportò con i piedi per terra quando fece colpire il vetro di entrambi i bicchieri. «Alle nuove conoscenze», celebrò.

Fu felice di annunciarlo, come se la mia compagnia fosse stata, per lui, una via di fuga da un senso di attanagliante solitudine. Ignorava, però, era che quel tintinnio aveva appena siglato l'inizio del mio dominio e la fine della sua libertà.

Perché io mi sarei ripresa tutto, Blake, e avrei iniziato proprio da te. Dai tuoi lineamenti morbidi, dal timido sorriso che ti arcuava le labbra, dal modo in cui facesti sfarfallare le ciglia per mascherare l'imbarazzo e fingere una disinvoltura non tua. Avrei ripreso in mano le redini di qualcosa, e quel qualcosa saresti stato tu.

Quindi sorrisi. Non lo feci tanto per una vera contentezza, quanto per la soddisfazione di aver trovato il primo riscatto da quando la mia vita era sprofondata. Sguardo incatenato nel suo, terminai la festa. «Alle nuove conoscenze».

***

1986

Tagliare i freni del suo pick-up non fu difficile. Bastò un po' di pazienza e di precisione, e, ovviamente, servì un momento in cui non fossi circondata da sguardi attenti.

Fargli del male non era contemplato nei miei piani, in realtà. Ma il modo in cui le presenze scomode di Rylee e Ava avevano intralciato ogni mia intenzione, dalla volontà di riprendermi Blake al bisogno di recuperare tutti i soldi che lui mi doveva, aveva reso quell'operazione doverosa.

La verità era che ero ancora accecata dal susseguirsi degli eventi, per capire come agire con lucidità. Blake mi era stato rubato in meno tempo di quanto credessi possibile e la morte inaspettata di Nate, di cui venni a conoscenza solo in quel periodo travagliato, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Ancora una volta, da quella notte al Cerro de Monserrate in cui tutto cambiò, mi ritrovai con un mondo sgretolato tra le mani.

L'unico modo di riguadagnare certezze era esercitare il controllo che bramavo, con il fine di trovare un equilibrio degno di tale nome. Il male che procuravo agli altri era alla base della mia stabilità: mettere le persone alle strette era la sola maniera di costringerle a darmi ciò che volevo, soddisfacendo ogni mio folle desiderio.

La soluzione era stata terrorizzare Rylee, limitare il potere di Ava su suo fratello e abbassare le difese di quest'ultimo sfruttando i suoi punti deboli. Un po' di alcol era stato sufficiente a metterlo fuori dai giochi.

Il piano era stato semplice da architettare. Dovetti insistere sui soldi di cui avevo bisogno, l'unico vero motivo per cui ero tornata a farmi viva per le strade di Worcester, che sapevo benissimo essere conservati al poligono. Conoscevo la strada a memoria: Blake sarebbe passato per un incrocio in cui il traffico era regolato da un semaforo, e lì sarebbe entrata in gioco la fortuna. Se la luce fosse stata rossa, lui non avrebbe prestato attenzione alla circolazione, soprattutto in quel punto centrale della cittadina, per via del whisky che gli annebbiava la ragione e gli rallentava i riflessi. Bastarono pochi minuti perché io mi accertassi dell'incidente: una conoscenza fidata era lì per assistere al tutto, in possesso del numero di telefono di Blake, e aveva sfruttato la cornetta di una cabina per informarmi.

Certo, così facendo non avrei avuto i soldi che mi mancavano, ma per una volta ebbi la certezza di aver controllato in ogni modo possibile la sorte di una persona.

Volevano portarsi via Blake prima di me, ma io non ero mai stata seconda a nessuno.

Il denaro sarebbe stato qualcosa che, con il tempo, avrei riguadagnato. Era diventato sicuramente più difficile, perché il traffico di droga negli Stati Uniti era molto limitato rispetto a quello colombiano, ma non era impossibile trarne profitto. O almeno, non lo era stato fin quando la moglie di quello stronzo del presidente Reagan non aveva indottrinato gli americani con la sua campagna Just Say No, inducendoli a smettere di acquistare e consumare sostanze. Quella sgualdrina aveva privato noi spacciatori di ogni fonte di sopravvivenza. Solo in quei momenti sentivo la mancanza di Bogotá, di casa mia, ma era una sensazione temporanea. Svaniva in pochi secondi, periva come il caduco dispiacere di aver fatto del male a colui che amavo.

Perché sì, io amavo Blake. Avevo nutrito le sue insicurezze con un sentimento contorto e malato, depositato alla base di un profondo affetto che lui non aveva mai concepito, e avevo fatto in modo che il mio ricordo gli restasse impresso. Colmare i suoi vuoti supplendo alle sue mancanze era diventato il mio passatempo preferito, tra una carezza subdola e un copioso sorso d'alcol. Anche nelle peggiori condizioni, una benché minima reminiscenza di noi gli sarebbe vagata nella mente segnata dal tedio.

Ci pensai a lungo, rintanata tra le quattro mura del suo appartamento. La pioggia scrosciava all'esterno, inarrestabile, e batteva fastidiosa contro i vetri sottili delle finestre semiaperte del salotto. Con un paio di passi lenti e flemmatici, mi avvicinai al tavolo e tirai indietro una sedia, su cui mi accomodai. Pur essendo fiera del mio operato e della maniera in cui avevo sottratto qualcosa a tutti, guadagnandoci solo un personale orgoglio egoistico, avevo bisogno di distrarmi. Non esisteva modo migliore del mio marchio di fabbrica, per farlo.

Dalla tasca posteriore dei pantaloncini, quindi, estrassi una bustina. La polvere bianca al suo interno era mal tagliata: avrei dovuto rifinirla per stendere delle strisce perfette sulla superficie lignea del tavolo e bearmi del loro effetto disinibente. Così sparpagliai la cocaina dinanzi a me, e, adocchiando la lametta ancora intrisa del sangue di Blake che giaceva a qualche centimetro da me, la afferrai. Era l'unico aggeggio che mi permettesse di tagliuzzare quei granuli minuscoli. Con colpi lievi ma decisi e ben cadenzati, tritai la polverina, che a contatto con il liquido cremisi quasi asciutto assunse un colorito roseo. Ghignai, tra me e me, e pensai che, per un breve lasso di tempo dopo aver inalato quella salvezza, lui sarebbe stato in circolo nel mio corpo. Poi, da un'altra tasca degli shorts tirai fuori l'unico ricordo che possedevo della Colombia: una misera banconota da cento pesos, che arrotolai con precisione estrema. Formato un cilindro stretto, avvicinai un'estremità alla narice e una alla polvere rosa, e inspirai. La prima striscia scomparve in un attimo, così passai alla seconda e continuai fino a esaurirle tutte e cinque.

Reclinai il capo all'indietro; il soffitto sembrò tremolare un po', ma si stabilizzò quando socchiusi le palpebre. Il rilassamento conquistò tutti i miei muscoli e annebbiò qualsiasi pensiero razionale concepito dal mio cervello, che sembrò fermarsi mentre i minuti continuavano a scorrere inesorabili. Eppure, con tutti quei grammi che circolavano liberi nel sangue, stavo dannatamente bene. Rividi Bogotá, le sue strade sudice, i pericoli insiti nelle vie e negli edifici. In un angolo remoto della memoria, ritrovai anche Nate. E riconquistai l'equilibrio che tanto soleva sfuggirmi.

Tutto sembrò allontanarsi da me: l'appartamento in cui ero, i rumori all'esterno e persino la mia medesima persona. Ogni cosa era irraggiungibile ed era il mio raziocinio a primeggiare in quella lista. In una decina di minuti, persi la cognizione di tutto. La mancanza di quella sensazione, che avevo provato fino a quel momento, non era quantificabile o descrivibile a parole, ma era stata devastante.

Udii solo un lieve clic, quando la porta del quadrilocale venne aperta. Schiudendo appena gli occhi, nel mio campo visivo si palesò il profilo del corpo snello di Ava che, con finta disinvoltura, serrò l'uscio alle sue spalle e pronunciò un deciso: «Blake, sono a casa!»

Eppure, quando si voltò, potei assistere al crollo definitivo della sua maschera, alla disintegrazione di quella facciata di falsa sicurezza. Spalancò le sclere, mi guardò accigliata. Ancora non aveva fatto l'abitudine alla mia presenza frequente, e sicuramente non si aspettava l'assenza del fratello, la cui voce non rimbombò tra le pareti.

Chissà se sarebbe mai tornata, quella voce.

«Che ci fai qui?» mormorò, dandola vinta a un'incrinatura dovuta all'impotenza repentina. Poi si ricompose, e issò il tono. «Dov'è mio fratello?»

In pieno stato di benessere e leggera euforia, il mio ghigno si trasformò in una risatina nervosa. Afferrai la lametta abbandonata sul tavolo, me la rigirai fra le dita e ci giocherellai, azione che attirò lo sguardo di Ava sui rimasugli di polverina rosa che giacevano sulla superficie lignea.

«P-Perché è di quel colore...?» balbettò, e non osò compiere un solo passo in avanti. Stette in piedi, rigida come un soldato con la schiena alla porta. Anche se non lo voleva dimostrare, era terrorizzata dalla mia tranquillità. «Perché la cocaina è rosa, Nora...?» continuò, ma poi dedicò l'attenzione all'estremità della lametta metallica. Era ancora rossa, il liquido cremisi si era ormai rappreso. «Di chi è quel sangue?!» insistette, e quasi strillò, ma non mosse muscolo alcuno.

«Cuántas preguntas...» riflettei ad alta voce, infastidita dall'elevato volume della sua, chiaramente in preda al panico che scacciai facendo aleggiare una mano nell'aria, in un gesto del tutto disinteressato. Con altrettanta indifferenza mi alzai dalla sedia, lasciando la lametta sul tavolo insieme alla banconota colombiana, e mi avvicinai a lei. Le carezzai il volto con un dito, profilando la curva dolce del suo mento, e le spinsi il capo all'indietro per far sì che mi guardasse negli occhi, nonostante non differissimo molto in altezza. «Puoi stare tranquilla, nena, tuo fratello sta benissimo».

«Dov'è?» mi questionò imperterrita, soffiandomi fiato caldo sul viso, senza lasciarsi scalfire.

«È solo uscito, tornerà» risposi, rimanendo sul vago. La mia neutralità non lasciava intravedere nemmeno il più sottile spiraglio di verità.

«Nora, te lo chiederò una volta sola» ringhiò, le sue iridi verdi si incollarono alle mie scure. Per un attimo infinitesimale, mi sembrò di perdermi negli occhi di Blake. «Dov'è mio fratello?»

«Te l'ho detto», feci spallucce. «Credo stesse andando al poligono... O magari no. Insomma, chi può saperlo?» mi divertii a confonderla. «Non puoi semplicemente chiederglielo quando tornerà a casa?» mi presi gioco di lei.

Le bastò un effimero istante per capovolgere la situazione. Afferrandomi per le spalle, con una furia che non le era mai appartenuta, soffocata dalla sua indole dolce e premurosa, mi fece finire con la schiena spalmata sulla porta dell'appartamento. Con una mano mi strinse il collo, impedendomi di respirare regolarmente anche se non lo diedi a vedere. Non potevo concederle la soddisfazione di vedermi soffrire. Delle due, la più forte ero sempre stata io. Ero così abituata a saperla in difetto, che non potevo accettare l'idea che mi superasse.

«Dove cazzo è Blake?!» sbraitò, serrando le falangi attorno alla gola. Gettò un'occhiata veloce alla cucina, realizzando la presenza di una bottiglia di whisky vuota e abbandonata, poi tornò a dedicarmi tutta la sua attenzione. «Giuro che ti ammazzo a mani nude, se non mi degni di una risposta» ringhiò, gli occhi sgranati in cui pullulava la rabbia mista alla paura di scoprire una verità che non avrebbe potuto digerire. «Parla, Nora, Cristo santo!» urlò ancora, e nella confusione del momento realizzai solo l'impatto della mia testa contro la porta dura.

Eppure, io risi. Contro ogni sua aspettativa, mi munii della maschera malata della presa in giro, la indossai e risi. Risi sapendo che Blake stava rischiando la vita. «Mi sorprende che tu non l'abbia ancora capito, sei sempre così perspicace...»

«Cosa stai dicendo...» mormorò, allora, iniziando a essere scossa dal dubbio e da un'improvvisa debolezza.

«La realtà dei fatti» replicai. Il fiato mi veniva a mancare, ma mi obbligai a resistere. «Blake è nel luogo più ovvio dove lui possa essere, ora».

«Cazzo, Nora, dimmi dov'è!» esplose per l'ennesima volta. In lei ribolliva un fuoco indomabile, una fiamma che ardeva per il desiderio di radermi al suolo.

«Probabilmente in ospedale» confessai, senza palesare emozione alcuna.

In quel momento, potei udire tutti i cocci di Ava frantumarsi al suolo. L'ira che rimontava in lei lasciò il posto a una profonda preoccupazione, iniettata nelle screziature smeraldine delle sue iridi chiare. Le sue dita mi lasciarono il collo, la mano le cadde inerme lungo il fianco, tremante. Vidi le sue sclere velarsi di un luccichio a cui non permise di prendere il pieno controllo; lei si difese a spada tratta dal dolore dovuto alla paura più acuta che potesse trafiggerla. Ma io, per l'ennesima volta, le risi in faccia.

«Ancora qui a guardarmi come se fossi un'estranea?» la schernii. «Din don, tesoro», e mimai una campana che dondolava dinanzi al suo viso paralizzato. «Tuo fratello è in fin di vita, dovresti correre da lui».

Iniziò ad ansimare. Si toccò la gola più volte, ma i suoi respiri erano corti. Boccheggiava. Le mancò l'aria, ma io mi arricchii di soddisfazione. «In osp... In ospedale...» ripeté, incredula.

«Risposta corretta», continuai a deriderla.

Mi lanciò un'ultima occhiata. Pregna d'ira, con le palpebre ridotte a fessure, mi fissò. Poi mi prese per un polso, lo strinse così forte da farlo impallidire, spalancò la porta dell'appartamento e mi scaraventò all'esterno, sul pianerottolo. Finii con la schiena al muro, a causa dell'intensità della sua spinta, e con indifferenza mi massaggiai il polso indolenzito.

«Q-Qualsiasi cosa t-tu gli abbia fatto...» sussurrò, interrotta da suoni simili a singhiozzi repressi come le sue lacrime, «io ti faccio marcire in carcere, stronza, puoi giurarci».

«Avrai occasione di vederlo con i tuoi stessi occhi, smettila di perdere tempo» le consigliai. «Forza, vai» la invitai a precedermi, indicandole la scalinata con fare incurante.

Scosse il capo, degnandomi di una banale e tacita risposta. Solo una lacrima le scorse sul viso, incontrando la curva della sua guancia lentigginosa e arrossata, ma non sprecò alcun secondo prezioso per asciugarsela. Al contrario, girò sui tacchi e compì dei passi lesti e decisi per allontanarsi da me e uscire da quella palazzina.

Sul mio viso, ahimè, si dipinse il più sadico dei sorrisi.

Avevo vinto.

Quella fu la mia vendetta per tutto quello che Blake non mi aveva concesso. E se negli anni prima gli avevo dato ciò di cui aveva bisogno, lui aveva fatto il completo opposto, togliendomi quanto mi spettava.

In quel momento ebbi la certezza che, per una volta, ero stata io a sottrargli qualcosa.

Forse addirittura la vita.

***

Note informative e traduzioni
 Hélmer Gaviria* = si fa riferimento al personaggio di Hélmer de "Il Ghetto Zaffiro" di Miky03005 (per i lettori più fedeli, stiamo parlando del padre di Cheslav; per chi ancora non dovesse conoscere ancora questa storia, invece, cosa state aspettando? Se non la leggete, vi vengo a cercare a casa👀)

— "Parece que se entiende" = "Pare che si capisca"
— "Cuántas preguntas..." = "Quante domande..."
— "Nena" = "Piccola"

— Campagna Just Say No = campagna dedicata alla lotta contro l'abuso di sostanze stupefacenti, istituita negli Stati Uniti nel 1986 dalla first lady Nancy Davis Reagan, moglie dell'allora Presidente Ronald Reagan. La sua campagna volge alla diffusione di consapevolezza sui rischi e i pericoli legati all'assunzione di droga, invitando a dire "no" agli spacciatori che, negli anni '80, riuscivano a vendere sostanze anche ai più piccoli.

The Pint
Il Pint è un bar situato in una zona piuttosto isolata di Worcester, in cui si consumano soprattutto alcolici (sì, io sono la scrittrice professionale che fa gli screen a Google Maps perché non esiste una foto decente di questo bar)

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