Evermore - 𝑆𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝐶...

By dyrneromance

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Dorothea ha ventiquattro anni e un sogno custodito nel cassetto della sua scrivania, tra bobine consumate dal... More

Disclaimer e Cast -
Intro -
𓆰𓆪
𝐑𝐄𝐂 𝟎𝟏
1 - Universi
2 - Portland, OR
3 - Sciarpe di Lino
4 - 15 years, 15 million tears
5 - Concime per le primule
6 - Tinta sbagliata
7 - Fort Aberdeen
8 - Solo una stupida ragazzina
10 - Arvo
11 - In picchiata
12 - Poker e Umiliazioni
13 - Nei corridoi del Monev
14 - Noodles
15 - Ginevra
16 - June Kennedy
17 - La nostra più grande delusione
18 - Buon anno, sorellina
19 - I giardini di Babilonia
20 - Ragno Lupo
21 - Spike
22 - Qui o in camera, scegli tu
𝐑𝐄𝐂 𝟒𝟓
23 - Jack&Rose
24 - Poligamia malfunzionante
Avviso

9 - Abissale

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By dyrneromance

Mamihlapinatapai - è una parola del lessico yamana che descrive l'atto di «guardarsi reciprocamente negli occhi sperando che l'altra persona faccia qualcosa che entrambi desiderano ardentemente, ma che nessuno dei due vuole fare per primo».

And I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd understand
When everything's made to be broken
I just want you to know who I am

Seduta sull'altalena giallognola, chiusa nelle spalle per via del vento asciutto, si dondolò guardando l'albore di quel sabato sera infrangersi dall'altra parte della casa, incorniciandola di un'aurea aranciata stonante con la vernice dell'abitacolo. Aveva passato la mattina intera a leggere Sally Rooney ed era stata fuori tutto il pomeriggio, costringendosi ad intrattenersi all'aria aperta pur di non subirsi il viavai giornalieri di persone estranee che li raggiungevano per salutare la madre appena tornata. Non ricordava neanche la metà di quella gente e avrebbe preferito di gran lunga gelare nell'umidità di quel bosco, pur di evitare le esortazioni di sua madre ad intraprendere un discorso quanto più cordiale possibile.

Il lunedì si sarebbe tenuta la tanto attesa cerimonia dell'armata, primo motivo per il quale erano volate fino all'Oregon, lasciandosi alle spalle la stagione più bella australiana. Il secondo motivo erano le vacanze natalizie: per quanto il divorzio avesse segnato intimamente i sentimenti di Dorothea, i genitori incoraggiavano il loro legame riunendosi annualmente in quei giorni festivi, nonostante il più delle volte la loro figlia riuscisse a trovare la scusa adatta per non essere presente. Aveva trascorso gli ultimi quattro natali con la famiglia di Ramona e Anjette era decisamente stufa di quell'atteggiamento assunto nei loro riguardi. L'idea di raggiungerli in America fu proposta dal padre e conseguentemente, trovandosi in accordo, Anjette non stette a sentire a doppie, false ragioni che avrebbero compromesso l'ipotetica presenza della figlia con loro.

Quella domenica mattina fu letteralmente trascinata fino a Downtown da sua madre.

«Smettila di lamentarti...», le aveva detto camminando lungo il marciapiede di quella città così trafficata. «È un evento importante e non puoi presentarsi in jeans e cardigan.» Eppure Dorothea sosteneva di sì, in fondo a chi mai avrebbe potuto importare cos'avrebbe indossato quel giorno? A lei no, di certo. 

Anjette era esageratamente apprensiva e timorosa del giudizio degli altri e purtroppo, aggiungerei, Dorothea aveva ereditato questa seconda caratteristica, sotto tutt'altre sfumature. Sebbene sua madre ritenesse importante presentarsi con un certo aspetto, un preciso modo di fare, davanti a persone conosciute o meno, il timore di Dorothea trovava le fondamenta in una sfumatura più intima. Aveva timore del giudizio degli altri, ma questo sentimento era scaturito dal possibile modo in cui le altre persone avrebbero potuto interpretare quel suo carattere così complicato. 

Che, alla fin fine, non era così difficile da capire: timida, introversa con chi le pareva, incoraggiata nell'atteggiamento da genitori troppo poco presenti e paradossalmente oppressivi. Se avesse avuto la possibilità di rinascere, come in passato spesso si era trovata a fantasticare, molto probabilmente avrebbe scelto di farlo in un universo più libero e lontano da quella sua stessa realtà.

Entrarono in un negozio chiamato House of Dolly, o una cosa simile, e stettero lì per almeno tre quarti d'ora. Provò, ci poté giurare, almeno una decina di vestiti di varie lunghezze, di tutti i colori, finendo col dare il contentino a sua madre scegliendone uno che le scendeva fino al ginocchio, cadendo morbido sui fianchi, dalle maniche bishop lunghe e lo scollo quadrato. Non era male di per sé, il vero problema per Dorothea era il rosa madreperla che tingeva quel tessuto vellutato, un colore che non le donava affatto dato il sottotono autunnale della sua carnagione. Se lo fece andare bene pur di tornare a casa, esausta ma ignara delle successive tappe programmate dalla madre. 

Fecero shopping per tutto il giorno anzi, Anjette fece shopping comprando il necessario per il giorno seguente, aggiungendo alle buste anche un paio di tacchi che per quella volta non dispiacquero alla figlia.

Quel giorno una cortina di grigio tenue dovuta dall'ammassarsi di coltri nubi coprì il sole per la maggior parte della giornata, permettendo a piccoli fiocchi di neve di cadere soffici sul terreno di quella città. Trascorsero il tempo tra le bancarelle del Saturday Market, quelle poche rimaste aperte dal giorno precedente, le quali si trovavano all'interno del Tom McCall Waterfront Park Trail, il parco urbano per eccellenza di Portland, una distesa di verde che è proprio caratterista del luogo che affianca le sponde del fiume Willamette. Lì i mezzi pubblici sono gratuiti, proprio per questa ragione le due donne approfittarono dell'occasione per tornare in posti che in realtà Dorothea poco ricordava.

Fu quando arrivarono nel cuore di Downtown che Anjette, alzando l'indice verso un largo spazio che ricordava una piazzetta incavata in mattoncini rossi, spiegò che lì si sarebbe tenuta la cerimonia del giorno seguente. Era Pioneer Courthouse Square, uno spazio limitato, quindi Dorothea dedusse che non sarebbero stati in molti a partecipare: l'ultima volta a cui aveva assistito ad una celebrazione simile, fu poco prima del divorzio dei genitori, quando suo padre premiò alcuni dei soldati sopravvissuti alla guerra del Libano.

«Guarda lì, vendono i Moppely's Magnets!» Ed ecco che vide di nuovo sua madre trascinarla con occhi stupiti verso una vetrina, proprio come se non fosse comune trovare quelle calamite in giro per le città turistiche più popolari. Fu proprio accanto a quel negozio, lasciando sua madre a contemplare quegli oggetti dall'altra parte della lastra di vetro, che a pochi metri di distanza Dorothea si avvicinò ad un tabellone su cui erano spiegate le indicazioni per i posti turistici più gettonati. 

Allora ricordò perché aveva portato con sé la sua Canon vintage: la Powell's City of Books, una delle più grandi librerie degli Stati Uniti, un labirinto di carta stampata decenni prima, usata, letta e riletta da centinaia, migliaia tra i bibliofili più seriosi. Era un sogno, quasi un'utopia rispetto alla Thea's land e Dorothea non mi perdonerebbe se sapesse che non ho specificato che Thea sta per Thea Beatrice May Astley, una grandissima scrittrice australiana che occupa un posto importante nella letteratura della sua nazione poiché era "l'unica donna romanziere della sua generazione ad aver ottenuto il successo iniziale e pubblicato in modo coerente negli anni '60 e '70, quando il mondo letterario era fortemente dominato dagli uomini".

Visitare quella libreria fu l'unica cosa che non fecero: indaffarata com'era, Anjette non le permise nemmeno di obiettare, continuando a camminare a due passi davanti, col mento alto di chi sembrava più Sergente dell'ex marito stesso. Dorothea dovette mordersi la lingua come sempre, del resto avrebbe avuto ancora qualche settimana a disposizione per poter tornare lì, da sola.

Quella sera a cena Tyrone non c'era, era in giro con Annalize ma questo dettaglio ad Anjette era sfuggito.

«Quel mascalzone non mi ha mai parlato di ragazze!» Il tono stupito di sua madre rivelava una finta offesa, forse più spinta verso una contestazione meravigliata che ad una innervosita. Evan sapeva già della relazione di suo figlio, tant'è che tra un boccone di roastbeef e l'altro fece due conti tra sé e sé, deducendo che stessero insieme da almeno tre anni ormai.

«È una brava ragazza, lavora sodo...», ammise versandosi della salsa gravy sulle patate lesse. «Sua madre le ha ceduto il posto, non so se ricordi Jolene.»

«La mora del Tennessee?»

«Sì, esatto.»

Dorothea restò ad ascoltare in silenzio per l'intera durata della cena poi, quando decise di essere sazia, si alzò sotto lo sguardo dei genitori e andò verso la pattumiera per gettare gli avanzi. Non le dissero nulla quando lasciò la cucina e, come se non fossero stati interrotti, tornarono a parlare tra di loro.

Il giorno successivo si svegliò tardi, la notte precedente era rimasta sveglia pur di restare in videochiamata con Ramona a consolarla per quel che poteva. Lei e Lyah si erano lasciate, questa volta sembrava una cosa definitiva e lo si capiva dal pianto sfrenato della prima. Avevano caratteri opposti, a tal punto da trovare modo di contestare qualsiasi cosa in qualsiasi momento: e se all'inizio della loro relazione ciò sembrava quasi farle divertire, ad un certo punto non riuscirono più a sopportarlo. In fondo erano due ragazze buone, divertenti e molto socievoli, proprio per questo motivo a Dorothea dispiacque più del dovuto. Aveva detto a Ramona: «Trovereste una soluzione, se solo parlaste faccia a faccia», ma l'amica aveva insistito sul fatto che non sarebbe cambiato molto e che lasciarsi per telefono era stato il modo giusto. «Almeno così nessuna delle due ha ceduto, sai già come finisce ogni volta.»

Pensò ad un modo per tirare su il morale dell'amica mentre si preparava, distratta da quei pensieri sbagliò la coda dell'eyeliner due volte prima di decidere che non ne avrebbe messo affatto. Decise che avrebbe chiamato Ramona nel primo pomeriggio, a Portland erano scoccate le dodici in punto da pochi minuti, il che voleva dire che a Melbourne erano appena le sette del mattino.

Scese in salotto dove Anjette l'attendeva impaziente ma pronta ad uscire e, mentre Dorothea provava a tenersi in equilibrio poggiandosi al manico della poltrona per infilarsi il secondo tacco, le disse che Evan e Tyrone erano usciti già da un pezzo.

A dirla tutta Portland non è così affollata d'inverno: c'è molto verde e le mete turistiche si concentrano tutte nel fulcro dello stato, lasciando le residenze in un'area più distante e periferica, tra le colline aride in estate e umide nelle stagioni più fredde. Ci sono molti ciclisti, ciò è un punto a favore che dimostra quanto green friendly sia l'Oregon rispetto ad altri paesi americani. 

Sulla strada principale, l'auto di suo padre guidata dalla madre percorreva a velocità costante lungo l'asfalto, sorpassando di tanto in tanto gruppi di ciclisti che facevano tutto fuorché sistemarsi in fila indiana. Anjette aveva suonato il clacson un paio di volte, prima infastidendo e interrompendo le conversazioni tra gli sportivi, poi intaccando l'udito fragile mattutino della figlia.

Arrivarono dieci minuti prima dell'inizio, parcheggiando proprio accanto all'entrata dello Starbucks che affacciava sullo Square. Fortunatamente i posti erano riservati e, tra un saluto e l'altro, scesero i gradini che portavano al centro del Pioneer Courthouse per prendere posto a pochi metri dal palco. Quest'ultimo non era così alto: si alzava a poco più di un metro, sorreggendo varie sedute sulle quali, sereni e divertiti, degli uomini dalle divise decorate da numerose medaglie si scambiavano strette di mano e battute inaudibili. Accanto, qualche passo più avanti, su un supporto nero molto simile ad un leggio musicale veniva posizionato un microfono che, una volta collegato, emise un fastidiosissimo stridio.

Davanti al palco, circondando Dorothea e gli altri ospiti o familiari, vi erano sedie decorate da ghirlande dallo stemma americano, mentre di fronte e ad una giusta distanza vi erano altre sedute per i Sergenti che sarebbero stati menzionati. Il tutto si svolse velocemente e in questo modo: il Colonnello Ufficiale Superiore Garrison prese la parola per aprire la cerimonia, facendo di tanto in tanto qualche battuta sull'aria pungente e la decisione della corporazione di svolgere il tutto all'aria aperta, in pieno inverno. Poi nominò e ringraziò gli altri Ufficiali inferiori e Sottoufficiali presenti, citando ovviamente il Maggiore Evan Adams che si alzò e, con le braccia stese lungo i fianchi, mimò un inchino nella direzione di Garrison, per poi riprendere il proprio posto.

Quando ebbe finito con quei complimenti, invitò gli appena citati a raggiungere il centro del palco per distribuire le spille alle rispettive persone. A dirla tutta Dorothea non prestò molta attenzione fino a quel momento, era immersa nei suoi pensieri che saltavano da un soggetto all'altro, da quale libro avrebbe letto a quale avrebbe dovuto studiare, a quando avrebbe ricevuto il prossimo stipendio fino ad arrivare all'O'Brien. 

Fu solo quando sentì riecheggiare "Tyrone Adams" che alzò lo sguardo per individuare il fratello e, proprio in quell'esatto momento, guardando un uomo alzarsi di fronte alla sedia di sua madre, ad una decina di centimetri di distanza, si accorse che sedeva proprio davanti a loro. E chi lo affiancava ovviamente? Quel suscettibile brontolone la cui unica cosa intrigante che aveva era la faccia. Per il resto Dorothea non riuscì a trovargli altri pregi. Avevano parlato pochissimo, si erano scambiati si e no due battute prima di decidere che lo avrebbe etichettato come il classico bello ma stronzo.

A costringerla a distogliere lo sguardo fu Anjette che, appena vide il Maggiore Adams sistemare la spilla sul petto del proprio figlio, si alzò in piedi applaudendo il lacrime proprio come una mamma alla prima recita del proprio bambino. Dorothea si sentì in imbarazzo così come Tyrone, il quale fece un po' fatica ad ammetterlo dato l'affetto immenso che provava nei confronti dei propri genitori. Quando finirono con i Sergenti di Prima Classe, che erano solo un paio incluso Tyrone, si passò ai ranghi successivi.

Avrebbe potuto essere rude, scontroso, silenzioso e qualsiasi altro sinonimo di irritabile a lui attribuibile, però era dannatamente bello per avere quel caratteraccio. Pensò che fosse un peccato, che se fosse stato più simpatico forse avrebbe avuto più possibilità di piacerle. Ma questo a lui non importava, non era nel suo interesse compiacere le persone, proprio per questo differivano in un netto contrasto caratteriale. Non che Dorothea fosse quel tipo di persona che ti avrebbe sempre detto di sì, o che avrebbe mentito a fin di bene: lei, se non era lei, era solo ed esclusivamente per il bene della maschera familiare che aveva ereditato accuratamente, assicurandosi di riporla al sicuro una volta fuori dallo spazio delineato dai parenti.

A maggior ragione, proprio perché la attirava quel fascino da bello e dannato, non poté fare a meno di osservagli le spalle contornate da una divisa mimetica che gli stava dannatamente bene, mentre si alzava all'unisono con Tyrone, scambiandosi un mezzo abbraccio quando il Colonnello, al microfono, citò ad alta voce: «Oakley Brian Sullivan!»

La sua attenzione tornò al presente, catapultata in un'ondata di ammirazione mista a fastidio provato per se stessa. Non avrebbe voluto osservarlo più di tanto, tanto meno avrebbe voluto farsi scoprire a guardarlo dopo quella discussione avvenuta qualche giorno prima, sempre se si potesse definire discussione. Era stata una reciproca dimostrazione di astio nei confronti dell'altro, immotivato apparentemente, forse dettato da un'incomprensione dovuta dalla mancanza di conoscenza del carattere di chi avevano di fronte. 

Ma un motivo alla base c'era, ad accomunarli: non si piacevano perché si piacevano. È paradossale, un gioco di parole che significava l'omettere la realtà dei fatti, come se avessero avuto paura di qualcuno, di qualcosa che non poteva essere visto, ascoltato, percepito con qualsiasi altro tipo di senso al di fuori di quello emozionale. 

A guidare l'atteggiamento di Dorothea c'era la stessa ragione di quella di Oakley: un ostacolo paratosi davanti la sera del loro primo incontro, quando entrambi avevano percepito quella familiarità, quella connessione che agli occhi degli altri sarebbe potuta essere straordinariamente sbagliata. E lei non capiva perché lui, tutto d'un tratto, fosse stato così rude nei suoi confronti: perché mostrare così poco e nascondere così tanto? Avrebbe giurato di esserle piaciuta, eppure la sera del pub le aveva trasmesso tutt'altro. Forse era davvero meschino e scorbutico e semplicemente anche lui era costretto a compiacere gli altri. 

Facendo così aveva danneggiato ancora di più la poca fiducia che Dorothea aveva nei confronti delle persone, che già scarseggiava di sé a causa di numerose delusioni che l'avevano portata a dubitare di tutto e di tutti.

Ancora un'altra ragione che giustificava il suo costante agire per compiacere gli altri quanto più poteva: non avrebbe mai voluto che le persone si sentissero deluse da lei nello stesso modo in cui loro deludevano lei.

Cercò di mostrarsi il più disinteressata possibile, nonostante gli occhi si sporgessero oltre il limite che la mente si era prestabilito. E lo osservava, guardava il modo in cui stringeva con fierezza la mano degli altri comandanti, il modo in cui se la portava sulla parte alta del petto per giurare fedeltà alla nazione. Lo osservò scendere dal palco, tornando a passo svelto verso l'amico, col viso contratto in un sorriso represso e, proprio quando ricambiò il secondo abbraccio di Tyrone, i loro occhi per un istante si fusero ancora, per l'ennesima volta.

Dorothea saettò lo sguardo altrove, concentrandolo su Antoine, un altro degli ennesimi sergenti di quella giornata. La guardò distrattamente, ma in quel frangente di distrazione sentì lo stomaco rigirarsi, contorcersi su se stesso mentre l'amico - suo fratello -, gli sussurrava con una fierezza irrisoria «Povera June, domattina non riuscirà più a camminare.»

Guardò l'orologio a pendolo scoccare le cinque del pomeriggio e sospirò affranto perché quel giorno un'ondata di magone improvvisa, anche immotivata, lo travolse a dispetto dei festeggiamenti. Trovò fastidioso l'inestimabile numero di persone che si presentò alla sua presenza dovuti dagli eccessivi inviti che gli Adams si erano autorizzati di mandare, tra l'altro senza ascoltare la sua opinione. 

Il Maggiore Evan Adams aveva messo in chiaro due cose, qualche giorno prima: Oakley avrebbe dovuto accettare senza obiezioni che la famiglia organizzasse i festeggiamenti anche per lui e poi, di maggiore importanza, avrebbe dovuto pensare bene a cosa ne sarebbe stato di lui, una volta ricevuto il congedo. Era fuori discussione che Oakley non ci avesse pensato e anzi, probabilmente aveva passato più tempo a crogiolarcisi rispetto a quanto avrebbe dovuto. 

Per ottenere un congedo nell'esercito americano devi guadagnarti i giorni festivi: per fare ciò devi lavorare costantemente, evitando ritardi, malattie e facendo straordinari. Non avendo altro di cui occuparsi in Oregon, Oakley si era guadagnato sessanta giorni consecutivi che, o venivano utilizzati il prima possibile, o gli sarebbero stati scalati una volta avvenuto l'effettivo reinserimento. Ciò significava che aveva anche un'altra settimana per decidere se staccare temporaneamente dal lavoro, oppure continuare quella routine.

Pensava a questo mentre afferrava il terzo flûte dal vassoio di un cameriere, guardandosi attorno alla ricerca di un volto sicuro. Da lontano intravide Tyrone parlare animatamente con il Generale Stewart e avrebbe scommesso la sua prossima paga che probabilmente quello che il Generale aveva appena detto non era nemmeno così interessante.

Un'altra ragione per cui detestava questo tipo di eventi era che si avevano contatti più diretti con il resto della truppa. Dovevi morderti la lingua così tante volte, ascoltandoli parlare così fieramente di banalità, che avresti potuto mozzarti in due quell'organo indispensabile.

Si trovavano nell'edificio principale di Fort Aberdeen, innalzato per primo a soli dieci chilometri dai cancelli d'entrata. Quel luogo così asettico era stato trasformato in quello che più poteva avvicinarsi alla mensa di una qualsiasi chiesa cattolica: ovunque c'erano tavoli riempiti di pietanze diverse, bibite analcoliche alla frutta e alcuni stand offrivano brochure per i familiari invitati dai componenti.

L'aveva notata in centro, aveva osservato il modo infastidito con cui si erano adocchiati dopo la presa del distintivo. Si era accorto di come si fosse sforzata pur di non permettergli anche solo di insinuare che avesse posato gli occhi più di una manciata di secondi su di lui. L'occhiata che gli stava rivolgendo in quel momento non era nulla di diverso da quella precedente, l'unica cosa a cambiare era l'impossibilità di far finta che non ci fosse.

Si era avvicinata costretta dalla madre: non che la stesse tirando per il braccio, ma qualcosa gli diceva che le parole e l'occhiataccia riservatele mentre muovevano i passi verso di lui, intendessero qualcosa di diverso da un semplice scambio di parole tra madre e figlia.

Indossava un vestito così chiaro che gli venne difficile distinguere dove finisse il tessuto e dove iniziasse quella pelle diafana. Però le stava bene, fasciava a pennello il suo busto minuto col collo decorato da un solo ciondolo da cui pendeva un piccolo cuore in argento. Portava i tacchi con disinvoltura, l'avrebbero notato tutti se non fosse stata così tremendamente impacciata. Qualche dritta alle spalle, il mento più in su e avrebbe spezzato ogni tipo di conversazione di ogni genere di persona, catturando l'attenzione dell'intero Fort.

«Oakley, tesoro!» L'affetto che quella donna gli serbava era sempre stato così eccessivo e si odiò per aver anche solo pensato che col tempo avrebbe tranquillamente potuto prendere il posto di sua madre, se solo non fosse partita per l'Australia.

Gli prese il volto tra le mani, baciandogli le guance proprio come aveva fatto con Tyrone e, nello stesso modo, si congratulò con tono sensibilmente commosso nella sua solita immutabile cordialità. 

«Sono così fiera di voi, non vedo l'ora di festeggiare questo traguardo stasera.»

«A proposito di questo, non ho avuto modo di ringraziarla. Lei e il Maggiore Adams siete fin troppo gentili nei miei confronti.»

«Ma cosa dici...», gli disse guardandolo come se avesse appena detto una sciocchezza. «Sei come un figlio per noi, era inevitabile. Quindi non osare ringraziarmi ancora!» E lo intendeva davvero, il suo animo altruista avrebbe concesso parte di sé a chiunque, anche nei più sottili dei modi.

Le sorrise sinceramente con un filo di imbarazzo, prima di guardare finalmente la ragazza al suo fianco che aveva tutta l'aria non voler essere lì, quel giorno. Si zittì qualche secondo, aspettando che lei gli dicesse qualcosa, ma l'attesa fu vana. 

Non gli avrebbe rivolto la parola, non dopo essersi rivolto in quel modo nei suoi confronti. Non c'era alcun tipo di confidenza tra di loro, alcun tipo di dovere che l'avrebbe costretta a congratularsi amabilmente come tutti i presenti in quel posto. Nemmeno lo sguardo di rimprovero di Anjette sembrò smuoverla e anzi, fece di tutto pur di non allungare la vista alla sua destra, tenendola accuratamente fuori dalla visuale. 

Nemmeno due secondi dopo si era dileguata con un «Vado a cercare papà» .

Anjette si era subito scusata con lui e in alcun modo aveva provato a giustificare il carattere di Dorothea. 

«Non la capirò mai, è così ambigua.»

Le parole della donna furono esattamente ciò che Oakley si ritrovò a pensare la sera stessa, quando si ritrovarono a Ranton Town nella villetta degli Adams. Dopo il buffet alla base militare, si era rintanato in un pub poco fuori Portland con il solito gruppo per bere qualche goccio prima della stilettata finale di alcool che avrebbero bevuto la sera stessa da Tyrone. 

Era arrivato leggermente in ritardo, si era dovuto fermare nel suo appartamento perché la cameriera del locale aveva erroneamente versato della birra sulla sua divisa, nel tentativo di passargli il boccale dall'altro lato del tavolo. Indossava dei pantaloni scuri e un girocollo bianco nuvole, tendente al grigio. La giacca fu tolta solo quando mise piede nell'atrio principale degli Adams: fuori faceva tremendamente freddo e, in quel momento, desiderò solo avvicinarsi al camino del loro salotto.

Salutò cordialmente il Maggiore Adams, il quale lo indirizzò nella sala da biliardo dove avrebbe trovato Tyrone e gli altri compagni. Fu una festa abbastanza tranquilla, erano tutti un po' troppo brilli per fare baldoria e, a dirla tutta, gli ufficiali che entravano ed uscivano da quella casa avrebbero dovuto accorgersi per nulla al mondo che i loro inferiori avevano in corpo una quantità spropositata di alcool.

Ad un certo punto della serata, quasi allo scoccare della mezzanotte, erano rimaste almeno una ventina di persone e il chiacchiericcio continuo iniziato dalla stessa mattina, mischiato a una birra, due flûte di champagne e tre bicchieri nascosti di bourbon, gli avevano causato un mal di testa non indifferente.

Aveva bisogno di aria, il calore di quella casa lo stava soffocando e la testa iniziava a giragli. Non amava bere, si potrebbe osare dicendo che fosse astemio. Concedeva al suo corpo una dose decente di alcool mensile, il che voleva dire che, per quel mese, il suo fegato avrebbe potuto trovare pace dopo l'avvelenamento di quella giornata.

Si scusò con i ragazzi impegnati nell'ennesima partita a biliardo e uscì dalla sala subito dopo. Percorrendo il corridoio che portava alla cucina e poi al giardino esterno, sperò di non incontrare altre persone che avrebbero potuto intrattenerlo ulteriormente. Fortuna per lui, quella zona della casa era vuota e, non appena mise piede sugli scalini esterni della porta sul retro, poté trovare pace.

Inspirò profondamente e rilasciò un respiro profondo e caldo che, entrando a contatto con l'aria fredda esterna, si condensò in una nube che scemò via nel leggero vento serale.

Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e camminò pur di riscaldare il proprio corpo: aveva bisogno di stare un po' da solo, però di certo non avrebbe voluto morire di ipotermia. La casa in sé era piccola, forse grande il giusto per una famiglia come gli Adams, ma ciò che la rendeva una villetta vera e propria era il giardino immenso che si estendeva fino ad un piccolo ma fitto boschetto alle sue spalle.

Quando erano piccoli, decine di anni prima, c'era anche una piscina che evidentemente era stata rimossa dai nuovi proprietari. Al suo posto ora si innalzava un gazebo dalle dimensioni discutibili, una struttura che da lontano gli sembrò fatta in legno ma che, avvicinandosi per dar meglio un'occhiata, capì essere fatta interamente in vetro. Ora era certo si trattasse di una serra che, nell'oscurità dell'esterno a circondarla, appariva fitta di piante di ogni genere e nulla più.

Ci girò intorno, osservandola meglio per cercare di capirne l'utilità: se la villa era in costante affitto, chi diavolo si prendeva cura di una cosa del genere? L'inquilino più negligente avrebbe innaffiato qualche pianta, chi magari aveva il pollice abbastanza verde da prendersi la briga di farlo, ma le dimensioni lasciavano dedurre che dentro non ci fosse qualche pianta, ma molte di più.

Ed azzeccò: la porta della serra era stata lasciata aperta quindi, senza ulteriori indugi, vi entrò cercando subito l'interruttore della luce. Quando lo ebbe trovato se ne pentì quasi immediatamente perché quelle non erano normali lampadine: riflessero vivaci luci rosse e blu, che si alternavano da vaso a vaso, illuminando il contenuto delle ciotole in terracotta di piccole e medie dimensioni posti su scaffali che si succedevano lungo le pareti di vetro. C'erano piante e boccioli di ogni genere, tra alcune di queste riconobbe delle verdure, alcune appese a ganci che sbucavano dal soffitto, illuminati da luce fredda e accecante.

C'erano quattro scaffali, lunghi non meno di dieci metri, due di questi sistemati al centro della serra, mentre gli altri due erano più vicini al perimetro. Ognuno di questi distava ad un metro di distanza dall'altro e, a circondarli, c'era un sottile calore che molto probabilmente era generato dai raggi UV delle lampade.

Ce n'era di tutti i generi, fiori mai visti prima e dai colori indicibili dato il contrasto con le luci fluorescenti. Su ogni vaso era posto il nome corrispondente della pianta, etichettato in una calligrafia elegante e spessa, anche se abbastanza inutile dato che era scritto in una lingua che sarebbe potuta essere il latino.

Si avvicinò ad uno di questi, sulla sua sinistra, invasato da una ceramica scura e ampia abbastanza da contenere quel fascio di steli che si prolungava quasi al di fuori di esso. La luce fioca illuminava quelli che dovevano essere petali rosa, una tinta che andava a sfumarsi in una più chiara verso il centro del fiore, il pistillo. Si chinò per leggerne il nome ma a distrarlo dal decifrarlo fu un suono, la voce di qualcuno che per poco non lo fece sobbalzare.

Trattenne la sorpresa in petto, proprio come durante le simulazioni a cui aveva preso parte innumerevoli volte, mantenendo la calma mentre si voltava verso la ragazza che, nascosta da piante pendenti, gli ripeteva la stessa frase. 

«Non toccarlo.»

Sedeva a gambe incrociate sul bancone di uno scaffale, con le spalle incurvate in avanti e le ciocche di capelli a coprirle il viso. Era scalza, i tacchi li aveva lasciati cadere a terra e forse li aveva tolti camminando, data la distanza tra una scarpa e l'altra. Il buio pesto di prima e l'accecante luce di dopo gli avevano impedito di accorgersi della sua presenza. Ma non era da fargliene una colpa: era così bella che chiunque avrebbe potuto perderla di vista in mezzo a tutti quei fiori.

«Perché non dovrei?» Le chiese dopo un po', anche se per lui la risposta era quasi scontata. Conosceva quel fiore e non perché avesse letto il nome sull'etichetta del vaso, ma perché quella era una delle tante altre cose che teneva nascoste al resto del mondo.

«È un Oleander, è velenosa.» Gli rispose con un'ovvietà che avrebbe potuto far sentire intelligente anche la più stolta delle persone. Oakley avrebbe voluto dirle che non l'avrebbe avvelenato semplicemente toccandolo, eppure non lo fece, perché volle lasciarle credere che ne sapesse più di lui. Forse era il suo modo per scusarsi dell'ultima volta che si erano visti, una situazione che gli era rimasta conficcata nell'ugola e che non gli era proprio andata giù.

Aveva pensato e ripensato al modo in cui le cose era degenerate, a come sapesse rispondere a tono in qualsiasi situazione, tornando indietro con la memoria per ricordare il modo in cui gli aveva colpito la mano per allontanarlo da sé. 

Lo infastidiva, era una sensazione che mai avrebbe pensato di provare e, a dirla tutta, sperava di trovare un modo per smentirla. L'attrazione che c'era stata all'inizio era scemata via con la stessa facilità con cui si era presentata, spazzata via come piume al vento.

Si guardò intorno temporeggiando per capire se fosse il caso di andare via o meno. Non voleva tornare in casa, c'erano troppe persone alticce che starnazzavano e i suoi occhi ormai si erano abituati abbastanza alla luminosità di quella serra. Infilò di nuovo le mani nelle tasche dei pantaloni dopo essersi fermato davanti ad una Impatiens capensis maculata dalle sfumature aranciate, mentre fingeva di ammirarne i petali solo per ampliare abbastanza la sua visione periferica.

Dall'altra parte della stanza, Dorothea si concesse di guardarlo senza se e senza ma, analizzando quella figura slanciata chinarsi appena per permettere all'olfatto di entrare in confidenza col profumo floreale.

L'iniebrazione olfattiva di una era pari a quella visiva dell'altra, erano due anime che presto si sarebbero domandate se non ci fosse stato qualche errore, all'entrata per quell'universo.

«Non ti sta piacendo la festa?»

«Cos'è che te lo fa pensare?»

Dorothea alzò le spalle come se non fosse sicura di ciò che stava deducendo, poi spiegò: «Il fatto che tu sia qui, a nasconderti in mezzo a tutta questa flora, invece che divertirti con gli amici.»

«E tu?» Alzò leggermente il mento verso di lei, guardandola corrugare la fronte senza rendersi conto di come stesse dimezzando la distanza tra loro. Aveva deviato la domanda per non offrirle una risposta affermativa, avrebbe rischiato che le sue parole arrivassero ai genitori e ciò non era propriamente nei suoi piani.

«Che c'entro io?»

«In casa c'è abbastanza alcool e gente con la tua stessa mentalità per startene chiusa qui.» L'aveva detto apposta, voleva vedere fin dove si sarebbe spinta, chiedendosi se avrebbe reagito come giovedì sera. Al contrario però, Dorothea si dimostrò quanto meno toccata dall'insinuazione che ne seguì.

«Gente con la mia stessa mentalità?»

«Persone abbastanza precoci, acerbe...»

«I tuoi amici non sarebbero molto felici se venissero a sapere che li consideri nell'esatto modo in cui consideri me.»

«E come ti considero?»

«Hai detto che sono immatura.»

«Lo dici come se non t'importasse.»

«Infatti è così.»

«Perché?»

«Perché so di non esserlo.» Questo lo disse in modo convinto, come se non dovesse o volesse provare niente a nessuno e neanche a se stessa. Gli sembrò di vedere tutt'altra persona, qualcuno che - diversamente dalla Dorothea di qualche sera prima, sulla difensiva e pronta a spegnere la tua vitalità con le parole - mostrava semplicemente di non pesare molto ciò che gli altri avrebbero detto sulla sua persona, come se tutto ad un tratto il suo spirito da primadonna fosse invecchiato di almeno una ventina d'anni. Ciò non fece altro che celare la sua anima con l'ennesimo velo di dubbio, coprendola ancora di più di una veste che presto si sarebbe appesantita e che, Oakley, avrebbe tanto voluto tirar giù.

Fu proprio lui a continuare, beffandosi di lei dicendo: «Vedo che ti è passata l'isteria.»

«Era legittima.» Dorothea alzò le spalle con ovvietà, consapevole di ciò che stava dicendo, seria come non mai nonostante il tono leggermente derisorio.

«Non credo proprio, sei troppo invasiva e parli a sproposito.»

Erano uno di fronte l'altro, lei lo guardava col mento basso in difensiva, lui si portò le braccia in petto per incrociarle in una posizione di sfida. Era divertito ma il suo volto non lo diede a vedere o meglio, i suoi occhi erano l'unica cosa espressiva che avrebbe potuto trarre in inganno la sua celata meschinità.

«Sono solo gentile e tu mi hai messo le mani addosso.» Oakley trasse il collo indietro in un gesto istintivo, assumendo un espressione confusa da qualcosa che non ricordava affatto e seccata da un'affermazione totalmente inadeguata. Per un attimo si chiese se quella sera Dorothea fosse abbastanza ubriaca da confondere il suo stesso gesto d'aggressività, che per poco non gli avrebbe lasciato il livido della parte metallica del sedile, con quello di lui che semplicemente era limitato a catturarle l'attenzione.

«Non credo di ricordarmi questo passaggio.»

«Sarà la vecchiaia.» Oakley sbuffò un risata arresa, scuotendo la testa a destra e a manca come se non credesse a ciò che aveva appena sentito. 

Poi le disse, con tutta sincerità: «Questa non la chiamerei gentilezza.»

«È immaturità.» Gli precisò con un sorrisetto nascosto, trattenuto dai denti che con forza mordevano il suo labbro inferiore e che un po' nascondevano la soddisfazione di averlo fatto ridere, finalmente. Lui continuò a guardarla divertito, pensando a cosa rispondere per continuare quello scambio di battute: in cuor suo sperava che nessuno li avrebbe interrotti.

«Non c'è poi chissà quale differenza d'età, tra me e te.» Era una risposta d'arma a doppio taglio che avrebbe potuto dargli l'opportunità di incamminarsi in un territorio minato. Ed era questo il bello di Oakley Sullivan, che qualunque fossero state le scelte a sua disposizione, se la sua testa avesse scelto la strada sicura, il suo cuore si sarebbe comunque catapultato giù dalla vetta più alta, e senza paracadute.

«Nove anni...», Dorothea lo disse annuendo, come se ci avesse pensato su tanto quanto lui.

«Ed è tanto.»

«Dipende.»

«Da cosa?»

«Una differenza così, tra persone come me e Tyrone non sembra tanta...», gli spiegò spostando lo sguardo sull'orlo del vestito con cui le sue dita affusolate stavano giocando. «Quando non parla di lavoro, non mostra di avere trent'anni per il semplice fatto che ha la battuta pronta su tutto e lo capisci solo guardandolo che non ti prenderà mai troppo seriamente.» 

Oakley l'ascoltò annuendo, senza intervenire ma aspettando che continuasse a parlare per scoprire quanto le sue parole avrebbero toccato loro due in particolare. 

«Tra me e il resto del vostro gruppo c'è come un canyon, con alcuni è meno profondo e con altri è profondo come quello del Cotahuasi. Tipo con Annalize, io e lei abbiamo parlato l'altra sera e mi trovo bene con lei perché è molto simile a Tyrone, ma questo lo sai. Invece c'è quell'Alex che vuole sempre mettersi in mostra; forse crede di avere tante stelle quante ne ha mio padre.»

«Già, è un tipo particolare.» Asserì dandole ragione, trattenendosi nel fare altri commenti che sarebbero stati fuori luogo per persone sconosciute. Le avrebbe voluto dire che è un pallone gonfiato, che sperava lo beccassero nello stesso modo in cui era successo con il Maggiore Perez e che venisse tagliato fuori dall'Oregon. Si trattenne costringendo la sua mente a tornare nel presente, facendo rewind delle parole che gli aveva appena detto, e quasi sorprendendosi quando gli spiattellò: «Poi c'è la differenza con le persone come te.» 

Perché che intendeva dire con persone come lui? La stessa cosa che gli aveva rinfacciato qualche sera prima, o era semplicemente un discorso più generico?

«E qual è?»

«Dipende...», innescò ancora di più la sua curiosità, stranamente pesando le parole quanto bastava per non lasciare che ne uscissero considerazioni inadeguate. «Per te, abissale.»

Lui ribatté subito, non potendo star a sentire una considerazione del genere. 

«Non l'ho mai detto.»

«Hai detto che sono immatura.» L'aveva detto e in quel momento se ne pentì amaramente perché, in realtà, non l'aveva fatto per definire ancor meglio la spaccatura tra i loro confini, l'aveva fatto per il puro gusto di vederla in soggezione.

«Non preclude che tra me e te ci possa essere una differenza d'età tangibile.»

«Però è proprio questo che mi fai capire...», l'espressione di Dorothea suggerì quanta afflizione, delle semplici parole, potessero creare se utilizzate in modo sbagliato e nel contesto errato. Oakley si sentì mortificato, proprio come lei si sentiva la maggior parte del tempo in mezzo a quelle persone. 

Si era rintanata nella serra dopo un battibecco con la madre: quando le aveva detto che si sarebbe ritirata in camera, Anjette l'aveva afferrata per l'avambraccio dicendole che non era necessario essere scorbutica anche quella sera. Che Dorothea non volesse apparire scortese, questo lo sapevano anche i fili d'erba del giardino adiacente; ma che sua madre si facesse prendere troppo dalle occasioni, beh quello era un dato di fatto. 

Dorothea voleva solo dormire, infilare la testa sotto le lenzuola calde e risvegliarsi direttamente a gennaio, quando sarebbero andate via per tornare ad Altona Valles. Però non era così che funzionava: avrebbe passato le intere giornate natalizie a pensare a quel «stai zitta e non farmi fare figuracce», con le parole che le si sarebbero infiltrate nei meandri del cervello, radicate nel cranio come un mantra ripetuto così tante volte da portarti ad un esaurimento nervoso. Avrebbe pesato sempre e troppo le parole di tutti, perché questo le era stato insegnato e indicato come normale. 

«E forse lo fai solo perché sono più simile a te di quanto ti piaccia ammettere.» Snodò le gambe per lasciarle cadere oltre il bordo del ripiano, sistemandosi il vestito sulle cosce per evitare che si alzasse oltre. Oakley la guardò scendere con i piedi a terra, chinare le ginocchia per prendere i tacchi dall'apertura anteriore, in gesti così leggeri che gli venne il dubbio che potesse pesare più di una trentina di chili. Ad osservarla meglio, con più pelle esposta, si meravigliò di quanto fosse magra e la sua pelle era bianca come la porcellana, sottile e pulita a tal punto da riuscire a contarle le vene che trasportavano il liquido vitale. 

Quando tornò su, si voltò a guardarlo come se sapesse che avrebbe detto qualcosa e infatti, dopo essersi disincantato dalla figura, le disse: «Mi verrebbe da dire che è tutto da scoprire.»

Dorothea lasciò andare un sospiro leggero, tirando su gli angoli della bocca, ma appena, con fare disinvolto e tranquillo. Si guardarono come la sera di quel lontano martedì piovoso, come se fosse passato un tempo che era, in realtà, relativamente poco. Le luci fluorescenti illuminavano la figura di Oakley di un'aurea blu che ne esaltava le ombre, in sfumature che sul suo viso coprivano il più piccolo dettaglio che alla luce del sole avrebbe reso, un tale dipinto, il più maestoso tra i presenti in casa. Lei, contornata da raggi rossi e magenta, quasi scompariva risucchiata da quei toni che non esaltavano propriamente la sua essenza. Avrebbe detto che l'azzurro fosse il suo colore, e allora Oakley avrebbe concordato senza ribattere. Se la immaginava in mezzo alla campagna verde del Victoria, una simile a quella in cui lui abitava nel Maine, ricoperta di fiori e piante selvatiche, in un vestito simile a quello che aveva indossato quella sera, ma azzurro, o cobalto, o qualsiasi tonalità simile, magari stesa su un prato ad intrecciare i gambi di margherite in tiare floreali.

Ma non glielo concesse, non gli permise di andare oltre l'immaginazione. Ruppe ogni pensiero, ogni fantasia, ogni supposizione, in una manciata di gesti e in solo tre parole.

«Non lo fare.» Gli contestò in un sussurro, quasi come se volesse che Oakley le promettesse, le giurasse di non coinvolgerla mai più in un'idea simile. L'occhio sinistro gli sussurrava di farlo, in un'espressività contrastante all'altro nero come la pece, che gli urlava di allontanarsi il più possibile. 

Un paradosso vivente, un'incoerenza tale da gettarti in un mare di confusione, gli occhi di Dorothea Adams erano come la mente e il cuore di Oakley Sullivan. La differenza era che gli occhi potevi vederli, avresti potuto capire le sue intenzione nel modo in cui lei li lasciava esprimersi, ma mai avrebbe reagito davvero, mai avrebbe lasciato che fossero prima le azioni a mostrare le sue volontà, avrebbe lasciato parlare prima lo sguardo. Mentre lui poneva i gesti prima di ogni sentimento, prima di ogni espressione, perché quest'ultima, utlizzata male, avrebbe potuto trarre in inganno se stesso. Ma questo era ciò che pensava inizialmente.

Dorothea si avvicinò a lui, percorrendo solo due passi per trovarsi abbastanza vicina da alzarsi in punta di piedi; quindi allungò il braccio quanto bastava per permettere alle sue dita delicate di sistemargli un fiore dietro l'orecchio sinistro.

Poi andò via, lo lasciò lì, solo.


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