Amami, ti prego {Harry Styles...

By virgidellatorre

6.2K 184 80

"Non c'è cosa peggiore, pensai, di amare qualcuno che non ricambia il tuo amore. Louis amava me, io amavo Vic... More

Capitolo Uno
Capitolo Due
Capitolo Tre
Capitolo Cinque
Capitolo Sei
Capitolo Sette
Capitolo Otto
Capitolo Nove
Capitolo Dieci
Capitolo Undici
Capitolo Dodici

Capitolo Quattro

370 15 7
By virgidellatorre

CAPITOLO QUATTRO

Come previsto, Victoria non si fece né vedere, né sentire nei giorni seguenti, e non ebbe affatto torto nel farlo. Con quel mio gesto troppo avventato era inevitabile che si spaventasse. Le avevo messo sottosopra il suo bel mondo, lo stesso che si reggeva in piedi grazie a rigide dinamiche, a piani solidi, a progetti, a feste e première varie, un mondo in cui io rappresentavo un semplice errore, un incidente di percorso.

Sebbene morissi dalla voglia di vederla e di parlarle, decisi di non chiamarla prima del 21, giorno in cui, essendo consegnati alla libreria i cavalletti e tutto il necessario per la mostra, avrei dovuto farlo per forza e lei sarebbe stata costretta a rispondermi. Nel frattempo tornai alla mia vita, dedicandomi agli studi, al mio gruppo musicale, agli amici ed infine alla libreria, nella quale, dato l’incombente periodo natalizio, c’era un gran da fare. Un pomeriggio Liam, che ormai, senza volerlo realmente, era diventato anche il nostro agente, ci disse di averci trovato un ingaggio in un altro locale, uno più grande nel quale non eravamo mai stati prima. E, poiché l’esibizione era programmata per il 4 Dicembre, dovevamo provare molto.

Ricordo bene il 18 Novembre. Erano le cinque e mezza di sera di un giorno in mezzo alla settimana e fuori pioveva, quando entrai nel “Queen’s Theatre” a Londra per assistere alle prove del musical in cui Louis recitava. Ero esausto: fra scartoffie varie da sistemare in libreria e le lezioni mattutine all’università, quel giorno non avevo avuto pace. Raggiunta la sala giusta, mi sedetti su una poltrona in quinta fila. Le prove erano già iniziate e sul palcoscenico c’erano due ragazze che provavano. Non ci volle molto perché anche Louis comparisse sulla scena.

Ad essere sincero non credevo fosse tanto bravo! Non lo avevo mai visto così sereno e a proprio agio prima d’allora; parlava spigliatamente, guardando gli altri attori negli occhi e cantando a pieni polmoni, fiero di sé e di ciò che stava facendo. Aveva un’espressione felice e un sorriso smagliante, dominava letteralmente la scena, facendo passare in secondo piano tutto il resto, gli altri attori compresi. La sua timidezza sembrava essersi dissolta magicamente nel nulla. Il regista, un uomo pelato, smilzo e con un vistoso pizzetto sul mento, che stava in piedi sotto al palco, non sentiva il bisogno di correggerlo, tanto era bravo. Sarebbe diventato qualcuno, era evidente. Per comprendere quanto importante il teatro fosse per lui, ero necessario vederlo esibirsi, perché nessuna parola avrebbe potuto suscitare l’emozione che si provava nel vederlo recitare dal vivo. Lo osservavo muoversi sul palcoscenico cantando e ballando con occhi adoranti e lo stesso facevano gli altri, poiché era inevitabile farlo. Aveva un dono, Louis, una dote innata che lo rendeva speciale. Se solo il padre lo avesse visto quel pomeriggio, così gioioso e divertito, avrebbe compreso il motivo per il quale il figlio voleva coltivare questa sua passione, anziché diventare un avvocato, e, guardandolo con orgoglio, gli avrebbe dato la sua approvazione, la stessa che Louis da anni andava cercando disperatamente. Tanto era bravo che persi la cognizione del tempo e, quando lui mi venne a salutare, fui stupito da quanto velocemente questo fosse passato. Lo abbracciai, fiero di lui in quanto suo più caro amico, se non addirittura fratello, e gli proposi di mangiare assieme un boccone sulla strada del ritorno.

Usciti dall’edificio, entrambi affamati come lupi, decidemmo di recarci in una birreria da poco aperta, il cui volantino era giunto sino alla libreria. Il locale era affollato, ma un tavolo per due, per nostra fortuna, riuscirono a trovarlo. Ciò che attirava i clienti erano le cameriere, bellissime ragazze avvolte in pantaloncini estremamente corti e magliette che a malapena raggiungevano il loro ombelico. Queste ragazze si muovevano sensualmente fra un tavolo e l’altro, scherzando con i clienti di sesso maschile e mettendo il petto in mostra non appena possibile; conoscevo persino alcuni dei ragazzi con cui parlavano, erano vecchie conoscenze o persone con cui avevo avuto modo di bere un drink in passato.

Ordinammo un paio di succulenti cheeseburger con patatine al formaggio e due birre chiare. Tra un boccone e l’altro, mi congratulai con lui per la performance sul palco e lo spronai a continuare, sebbene suo padre non volesse. Era bravo, aveva un gran talento, e non poteva e non doveva permettere ad un vecchio stacanovista di rovinare il suo sogno di diventare un attore di teatro.

« Credi davvero che io sia così bravo? » mi chiese teneramente lui, incredulo.

« Lou’ sei grandioso, lo giuro. Sai che non te lo direi, se non fosse vero. », lo rassicurai. « E tuo padre dovrebbe vederti mentre ti esibisci prima di giudicarti. »

« Prima o poi troverò il coraggio di parlargli », sospirò fra sé e sé con una strana luce negli occhi, « prima o poi mi aprirò e dirò a tutti la verità… »

Seguirono un paio di secondi di silenzio, secondi nei quali mandai giù in un sorso tutta la mia birra, riflettendo su quanto avesse detto. Sembrava quasi che ci fosse più di una cosa che dovesse confessare e non solo al padre.

« Allora, dimmi un po’, Harry. Come va con quella donna? »

« Male, ma ancora per poco. »

« In che senso? Che significa “male, ma ancora per poco”? »

« Ci eravamo appena rivisti, quando ho rovinato tutto baciandola. »

« L’hai baciata? », fece lui con un inaspettato tono amareggiato, un tono che era solito fare quando veniva ferito.

« Sì. » confermai io, spiazzato. « Ma ho sbagliato, perché l’ho spaventata. Ora, però, rimedierò affinché quel bacio da errore si trasformi in un punto d’inizio, capisci? »

« Ma non é spostata? », mi chiese lui con lo stesso tono da cucciolo di cane abbandonato.

« Sì e allora? »

« Allora perché mai vuoi rovinare una famiglia, Harry? Ha delle figlie, giusto? A loro non pensi? »

Silenzio.

Louis mi lasciò senza parole. Aveva ragione: perché mai volevo rovinare la sua famiglia, che, per giunta, pareva essere tanto felice?

Fino a quel momento non avevo pensato a questo aspetto, al fatto di sfasciare un nucleo familiare, qualora fossi riuscito a conquistare Victoria. Non era giusto.

« Io la amo », sospirai. « La amo davvero. »

« L’ami, Harry? » Silenzio. « É la prima volta che parli di “a-a-amore”. »

« Questo perché é la prima volta che mi sento così… », mormorai io, « Mi sono innamorato, Lou’. Dico sul serio. »

Silenzio.

Louis aveva uno sguardo vitreo; sembrava che il mondo gli fosse caduto addosso ed io proprio non riuscivo a capire il motivo per il quale questa fosse la sua reazione. Da amico sarebbe dovuto essere contento di sapere che io nutrivo certi sentimenti per qualcuno. Io, almeno, lo sarei stato al posto suo, lo sarei stato realmente.

« Ma hai ragione tu: non ho il diritto né, tantomeno, il coraggio di privare due bambine di una famiglia. Non sono un mostro… »

Quella sera tornammo nel loft presto, entrambi taciturni. Salito a casa, mi feci una doccia velocemente e poi mi coricai a letto, inquieto, con un forte mal di testa ed una grande mole di pensieri.

Ero stato egoista e crudele nel desiderare, anche se inconsapevolmente, l’infelicità di qualcuno. E, seppure continuassi ad amare Victoria perdutamente, era ora di cambiare. Non potevo e non volevo essere un mostro. Durante quella notte, quindi, mi convinsi di abbandonare il piano e di permettere a lei ed alla sua famiglia di vivere serenamente; avrei, dunque, organizzato la mostra senza crearle altri problemi e dopo avrei continuato la mia vita, fingendo di non averla mai incontrata, perché, in fondo, era giusto così.

Il mattino seguente mi svegliai con uno strano peso al cuore, un macigno alimentato dalla tristezza e dal senso di colpa che provavo. Louis era già uscito, perciò mi preparai un caffè e lo bevvi amaro, come ero solito fare quando ero giù di corda, inzuppandoci dei biscotti secchi a basso contenuto calorico che il mio amico comprava, nonostante avessero un sapore terribile.

Ero davvero depresso, mi sembrava di avvertire già la mancanza di Victoria. Lei non mi avrebbe chiamato ed io non l’avrei contattata mai, ciò significava che non ci sarebbe stato niente fra noi. Continuavo a ripetermi che sarebbe stato meglio e che era la cosa giusta da fare, sebbene il mio cuore mi dicesse tutto il contrario. Lei era indubbiamente felice ed io, poiché l’amavo, dovevo mettere la sua felicità prima della mia: era così che doveva essere. Parlare di amore, tuttavia, mi faceva un certo senso, perché il sentimento in questione era completamente fuori dagli schemi, nato clandestinamente ed in pochissimo tempo, quasi come se una freccia di Cupido mi avesse colpito nell’esatto istante in cui, quel Venerdì 3 Ottobre, l’avevo scorta per la prima volta.

Quel mattino mi recai di buon ora all’università, dove avevo un importante esame. Ahimè, tanto grande era la mole di pensieri che affollava la mia mente, che fallii l’esame. L’unico al quale raccontai di questo fallimento fu Louis, che tentò, inutilmente, di consolarmi portandomi in discoteca. Per la mia incolumità, ritenni che fosse più saggio tener nascosta ai miei genitori la verità almeno fino a che non sarei stato emotivamente in grado di affrontare una discussione.

Il 21 Novembre Victoria non si fece sentire, né io la chiamai. Quando giunsero gli uomini con l’allestimento per la mostra, dissi loro di riporre il tutto in uno sgabuzzino pieno di ragnatele dove mio nonno teneva documenti e vecchie scartoffie come pupazzi giganti a forma di Babbo Natale, renne e San Patrizio che da anni non era più solito esporre. Rimasi a guardare quelle scatole, immobile, a lungo, pensando a lei, a quanto fosse stato bello quel bacio e, sopratutto, a quanto fosse stato sbagliato, se non addirittura scorretto, da parte mia. Ero mortificato, ma, sebbene fosse errato, non mi pentivo di quanto avevo fatto.

Stavo per chiudere la libreria, quando un suono di campanelle a me fin troppo noto mi fermò. Una piccolissima parte di me sperò per un istante che fosse Victoria la donna appena entrata, perché, in fondo, morivo dalla voglia di vederla, di parlarle. Mi sarei scusato, l’avrei rassicurata dicendole che un comportamento del genere così avventato ed infantile non si sarebbe mai più verificato, poi avrei cercato il suo sguardo e, solo se lei me l’avesse concesso, mi ci sarei perso.

« Harry, giusto? », fece la signora sulla soglia, riportandomi improvvisamente alla realtà. Annuii e sorrisi a quella donna, la quale, sebbene avesse un volto a me ignoto, mi sembrava già di conoscere. « Sono Vivienne Dubois », riprese subito dopo in tono professionale protendendo la mano destra, « e mi manda la mia amica Victoria, che ha curato l’esposizione che si terrà qui il 18 Dicembre. »

« É un piacere conoscerla, signora Dubois », le dissi cordialmente, un po’ teso per tutta quella formalità. Mi sembrò di stare ad una di quelle cene che i miei genitori organizzavano spesso e che odiavo tanto da piccolo, perché noiose, estenuanti e lunghissime. Allora mi toccava presentarmi ad ogni singolo ospite, perdere tempo con inutili convenevoli e fingere di essere un angioletto.

Vivienne, o forse dovrei scrivere “la signora Dubois”, mi squadrò da capo a piedi prima di addentrarsi in uno dei tanti “mondi” della libreria. Io la fissavo, incuriosito e infastidito al contempo dai suoi modi particolari, cercando di capire cosa mai potesse avere in comune con Victoria. Era bionda, sì, ma i suoi capelli era di una tonalità cupa, un biondo cenere, per intenderci. Indossava un vestito a tubino color melanzana che le arrivava poco sotto le ginocchia e portava in testa un ingombrante cappello abbinato, aveva una grande borsa nera di pelle, delle scarpe col tacco nere, un rossetto di un colore simile a quello del vestito, forse un po’ più chiaro, e un cappottino beige sulle spalle. Sul suo viso c’era qualche segno causato dall'età abbastanza visibile anche da qualche metro di distanza, doveva essere qualche anno più grande di Victoria, ma rimaneva comunque una bella donna con le curve al punto giusto. Liam avrebbe sbavato nel vedere un fisico così. Il suo atteggiamento era provocatorio, si percepiva sin da subito la sua altezzosità. Parlava un perfetto inglese, ma con un inconfondibile accento francese. Victoria me l’aveva descritta come una sognatrice, una donna di estrema intelligenza e piena di passione, però, a prima vista, il modo in cui l’amica l’aveva ritratta non mi parve veritiero. Solo riguardo al gusto e all’essere fuori dall’ordinario, infatti, la Vivienne che vedevo corrispondeva alla Vivienne di cui avevo tanto sentito parlare.

« Mi piace », sospirò seduta sul divanetto rosso. « Mi piace. »

Non feci in tempo ad aprire bocca, che lei era già andata ad esplorare altri settori. Sorpreso - non necessariamente in senso positivo -, tornai dietro al bancone per chiudere il registratore di cassa e dovetti attendere almeno cinque minuti prima di vederla nuovamente. Aveva un sorriso impercettibile sul volto, sorriso che avrebbe dovuto significare che era entusiasta.

« Vicky ha scelto propri bene », commentò estemporaneamente non appena fu vicina a me. « Questo posto é incantevole, » si affrettò ad aggiungere, « avverto una grande energia positiva qui e poi é strutturato in modo tale da non risultare dispersivo, sebbene sia diviso in così tante sezioni diverse. É magico, é… bello. »

Nel sentire la sua descrizione della libreria mi commossi, perché era lì che viveva il ricordo di mia nonna, lo stesso che spingeva nonno a continuare a recarsi di buon mattino quasi tutti i giorni a venirvici. La ringraziai e poi le spiegai come Victoria aveva pensato che la mostra si sarebbe svolta, allora lei cominciò a dirmi come voleva lei che si svolgesse, spiegandomi per filo e per segno la sua visione di quell’esibizione. Parlò tanto da costringermi a prendere appunti. Mi pregò di aprire le scatole che mi avevano da poco consegnato e numerammo i vari cavalletti così da assegnare loro un posto ed un ipotetico dipinto precisi, ogni cosa aveva una sua « collocazione efficace », disse. A un certo accennò ad un compenso in denaro che ci avrebbe dato, allora io le dissi che non c’e n’era bisogno, che con Victoria non ne avevamo mai parlato e lei mi guardò stupefatta, come se il fatto che io non avessi chiesto soldi fosse sconcertante. La verità era che di certo non facevo quella mostra per guadagnare e che anche mio nonno, se aveva accettato, non lo aveva fatto per incassare denaro, ma per accontentare suo nipote che, stupido, si era infatuato di una donna irraggiungibile.

Alle fine, quando finalmente potei chiudermi alle spalle la porta d’ingresso girando il cartello “aperto” dalla parte del “chiuso”, tirai un grande sospiro di sollievo. Fu una liberazione.

Dunque guardai l’orologio e, dopo aver appurato che era davvero molto tardi, mi infilai la giacca e corsi via.

Mezz'ora più tardi mi trovavo in un piccolo ristorante a Chinatown per mangiare in compagnia di mia sorella. Io e lei, infatti, adoravamo la cena cinese e non c’era posto in cui ci piacesse cenare più di quello.

Il locale, arredato prevalentemente con mobili di legno scuro e colori forti come il rosso e l’oro, era uno dei più frequentati di Londra, sebbene fosse davvero molto piccolo. Di solito bisognava prenotare con largo anticipo, ma per noi, che eravamo clienti fedeli ormai da anni, il proprietario, un vecchio signor nativo della Cina al quale Jenna aveva fatto un paio di tatuaggi, un posto ce lo trovava sempre, anche se ci presentavamo lì senza preavviso, come successe quella sera.

Seduti attorno ad un tavolo rotondo di ridotte dimensioni addossati contro una parete, io e mia sorella chiacchieravamo come dei buoni amici, ingozzandoci fino a sentirci male di squisite pietanze ipercaloriche. Dall’ultimo nostro incontro ne erano successe di cose nelle nostre vite! Jenna raccontò di essersi presa una cotta per un ragazzo che vendeva dischi di musica in un negozietto a Shoreditch. « Non é niente di importante, », disse, « usciamo soltanto assieme, ridiamo, beviamo qualcosa… Insomma, tutto qui. Se mamma e papà lo vedessero, gli prenderebbe un colpo! Ha le braccia e il collo interamente coperti da tatuaggi e ha dei percing in bocca e sulle sopracciglia, ma a me piace, sai. É carino, é spiritoso, é gentile… »

Dal modo in cui mi parlò di lui intuii che dovesse essere davvero molto presa, perché non si era mai aperta a tal punto con me. I ragazzi che aveva frequentato in passato erano dei punti interrogativi per me; al massimo li vedevo di sfuggita a casa sua o al suo laboratorio di tatuaggi. Erano tutti strani, pieni di ambigui disegni colorati sulla pelle e sempre con una sigaretta (o una canna) in bocca. Io ed i miei genitori non eravamo contenti di sapere che lei usciva con tali soggetti, ma a Jenna poco importava; Jenna era selvaggia, sin da piccola adorava spingersi oltre il limite consentito e combinare guai, spesso, infatti, nostro padre si indignava con lei per le sue azioni o per il modo talvolta sgarbato in cui lei gli rispondeva, quando lui la rimproverava. Ricordo che un anno la punì impedendole di uscire di casa con gli amici per tre mesi e lei allora scappò, recandosi a casa della nonna.

Non ci volle molto perché lei mi chiedesse come stessero andando le cose con Victoria. Sapeva bene che se le avevo chiesto di uscire assieme all’ultimo secondo, ovvero alle tre del pomeriggio del giorno stesso, un motivo doveva esserci. Mi conosceva meglio di chiunque altro, forse. A quella domanda, dunque, seguì un lungo silenzio. C’erano un milione di cose di cui volevo parlarle, ma non sapevo da quale cominciare. Alla fine decisi di esordire dicendole che qualche giorno prima avevo avuto il coraggio di baciarla, così, senza pensarci troppo, e lei rimase a bocca aperta dallo stupore. Non era nel mio stile abbandonarmi agli impulsi senza riflettere. « E come é stato il bacio? Le é piaciuto? E poi cosa é successo? », mi chiese quindi lei, impaziente di sentirsi raccontare i vari dettagli. Risposi a quella domanda un po’ imbarazzato, cercando di non sembrare patetico nel descriverle le emozioni che avevo provato, e poi, prima ancora che lei potesse aggiungere qualcos’altro, le dissi che eravamo stati interrotti dalla chiamata del marito e che Victoria, sconvolta, se ne era andata, scomparendo dalla mia vita così drasticamente, senza lasciarmi neppure l’opportunità di spiegarmi. Mi chiese, perciò, coma mai io non l’avessi cercata ed io risposi dicendole che non me la sentivo di rovinare una famiglia, perché c’era in ballo, oltre che al mio cuore, anche la felicità e serenità di due bellissime bambine. Jenna, allora, tacque per qualche istante, incerta su cosa fosse più appropriato e saggio dirmi a quel punto. Probabilmente non aveva creduto neanche possibile che io avessi trovato il coraggio di baciarla…

« Harry, tu l’ami? »

Ed ecco spuntare fuori quel verbo tanto complicato, lo stesso sul quale mi ero interrogato negli ultimi giorni. Potevo realmente chiamare “amore” quel sentimento tanto profondo che nutrivo nei confronti di Victoria?

« Temo di sì » mormorai, confuso.

« Allora chiamala », riprese lei con tono convinto. « Chiamala, Harry, e diglielo, dille che l’ami, che pensi sempre a lei e che non ti penti di averla baciata. E se lei ti respinge, tu fregatene ed insisti. Cercala, fratellino, trovala e, soprattutto, conquistala. » Silenzio. « Ti si illuminano gli occhi quando parli di lei e ti imporporano le guance, se questo non é amore… »

« Ha delle figlie, Jen, lo capisci? Io non sono un mostro, non ho il coraggio di mettermi in mezzo ai loro genitori e di rovinare la loro famiglia! »

« Al giorno d’oggi é praticamente normale avere i genitori separati e comunque non c’é bisogno di spingersi tanto oltre; magari vi lasciate dopo una settimana, perché scoprite di essere incompatibili. »

« Sì, certo. Per lasciarci dovremmo prima stare insieme! » sbuffai. « Ti pare che le piaccio? Secondo me mi sono fatto dei film e basta; molto probabilmente Victoria non mi considera neanche… Magari la ragione per cui é scomparsa é che é arrabbiata, perché l’ho offesa baciandola, punto. »

« Se fosse come sostieni tu, ti avrebbe dato subito un ceffone senza lasciare che la baciassi, non credi? »

« Eravamo ubriachi, te l’ho detto… »

« Sai bene che non é così. Se fosse arrabbiata, ti affronterebbe al posto di fuggire, perché chi fugge nasconde sempre qualcosa. »

« Cosa vuoi che faccia, Jen? Sono così confuso ed impaurito… »

« Chiamala. » ripeté lei con tono convinto, guardandomi negli occhi, come se quella soluzione fosse la più ovvia e giusta e facendomi rabbrividire.

Sì, pensai, devo assolutamente chiamarla, quanto meno per sapere cosa é successo fra noi.

Tornato a casa, quella sera, la chiamai una, due, tre, quattro volte, ma lei non rispose. Fissai quel telefono invano per ore, seduto sul divano in soggiorno, deciso a parlarle, in attesa che mi richiamasse. Avevo bisogno di chiarirmi con lei, di sistemare le cose e se gli occhi alle prime luci dell’alba non mi si fossero chiusi da soli dalla stanchezza, avrei trascorso l’intera notte in bianco, ansioso di sentire la sua voce. Verso le sette del mattino, poi, fui svegliato da Louis, il quale mi aveva premurosamente preparato un caffè; preoccupato di vedermi in quello stato, con le occhiaie, il volto pallido e gli occhi arrossati, egli cominciò a pormi in modo insistente domande che avrei voluto volentieri non ricevere ed io, nervoso ed isterico, lo trattai male, dicendogli di farsi gli affari suoi.

Rintanatomi in camera, dunque, feci rapidamente una doccia fredda per rinfrescarmi, indossai un paio di pantaloni abbinati ad una Polo ed uscii di fretta, sbattendo la porta di casa alle mie spalle, senza neppure salutare Louis, che nel frattempo era andato a vestirsi. Giunto in strada, mi bloccai. Cosa stavo facendo? Dove volevo andare? Non importava… Victoria era da qualche parte a Londra ed io ero determinato a trovarla.

Il primo posto che mi sovvenne in mente fu la prima enoteca che mi aveva indicato, quella in cui mi aveva dato buca ad una specie di appuntamento. La raggiunsi e chiacchierai brevemente con il proprietario, un vecchio uomo pelato, il quale mi disse di averla vista spesso, tuttavia non di recente, bere con le amiche lì, ma non la conosceva. Subito dopo mi recai al ristorante in cui avevamo pranzato, che non distava molto. Lì mi diedero delle informazioni riguardo al marito inutili ai fini della mia ricerca. Il terzo luogo in cui mi diressi fu la seconda enoteca, quella incaricata di fornire vini alla mostra, dove dialogai con la proprietaria ottenendo anche qui notizie poco rilevanti.

Ero disperato, non sapevo più a chi rivolgermi. Fra una domanda e l’altra si era fatto mezzogiorno ed un pallido insolito sole illuminava le strade. Poiché molto affamato decisi di andare a mangiare qualcosa al locale di Carlo, luogo in cui, non molto tempo prima, ero stato a pranzare con lei. Se fossi stato un uomo fortunato o se la mia vita fosse stata un film, molto probabilmente vi avrei incontrato Victoria, bella e raggiante come sempre, ma, dato che la realtà non possiede neppure un pizzico della magia e della teatralità delle pellicole cinematografiche, ciò, ovviamente, non avvenne ed io finii col divorare voracemente un panino in completa solitudine. Inghiottito anche l’ultimo boccone e chiesto al mio amico se avesse più sentito « la donna della mostra », me ne andai, sazio ma, in un certo senso, vuoto, perché niente avrebbe potuto colmare quello spazio nero lasciato da Victoria nel profondo del mio cuore.

Tornato nuovamente in strada, siccome alle tre dovevo trovarmi al di là del Tamigi per aiutare una giovane studentessa con il pianoforte, decisi di fare un ultimo tentativo, il quale, ahimè, fallì miseramente. Infatti, neppure la negoziante del piccolo atelier di stoffe, in cui un pomeriggio ci eravamo recati sempre per la mostra, seppe dirmi niente ch’io non sapessi già. Victoria rappresentava per tutti un gran bel mistero, uno di quelli ai quali chiunque sarebbe voluto venire a capo. I nostri mondi erano troppo distanti per collidere, ecco perché nessuna delle persone che avevamo conosciuto assieme era in grado di aiutarmi.

Sconsolato, raggiunsi dunque la casa della ragazza a cui dovevo fare lezione e poi, sulla strada di ritorno, dopo aver bevuto un buon caffè al cioccolato di Starbucks, mi fermai alla libreria di mio nonno dove aiutai il mio povero vecchio a servire il gran numero di clienti che si presentarono quel pomeriggio. Alla chiusura della libreria, sfinito, corsi a casa e, approfittando del fatto che Louis fosse alle prove dello spettacolo, mi addormentai prestissimo, incapace di tenere gli occhi aperti anche solo un istante di più. Quella, dopotutto, era stata una giornata davvero intensa, troppo, forse, dati i risultati.

Il mattino seguente mi svegliai verso le sei e mezza. Stanco più da un punto di vista mentale che fisico, corsi all’università dove mi esercitai per tutto il giorno con il pianoforte, deciso a porre rimedio al mio errore. Spensi il telefono per evitare d’esser disturbato e cercai di concentrarmi il quanto più possibile sulle note da suonare così da zittire almeno per un po’ quegli ingombranti pensieri che mi affollavano la testa. Il mio futuro - stavo per scrivere destino, ma mi é parso un po’ forte - era già stato messo nero su bianco e non c’era niente ch’io potessi fare per cambiarlo.

Quando giunsi a casa, quella sera, ero esausto, mi dolevano le dita per quanto mi ero esercitato. Era l’una di notte ed io barcollavo a causa di tutte le unità alcoliche che avevo ingerito poco prima nella discoteca dietro l’università.

Entrando nel loft, feci involontariamente cadere degli oggetti dal mobile posto all’ingresso e il rumore fracassante delle chiavi, che si abbattevano al suolo, echeggiò in tutto l’appartamento, facendomi sussultare. Poco lucido, sbattei la porta e mi sdraiai sul divano. Sfilai lentamente la giacca e la gettai sulla poltrona, udendo quasi immediatamente un « ahia ». Non feci in tempo a reagire che la lampada dietro alla poltrona si accese, illuminando il volto pallido e serio di Louis.

« Dove cazzo sei stato, Harry?! », sbottò lui. « Ti ho chiamato un casino di volte ed era sempre irraggiungibile! Tua madre mi ha chiamato preoccupata e mi ha chiesto dove fossi ed io le ho dovuto mentire. E sai che odio mentirle! »

« Ma che cazzo vuoi, Lou’? Vuoi farmi la morale? », gli urlai contro isterico. « Non ti sopporto più, mi stai sempre col fiato sul collo; sembri una suocera! » Silenzio. « Mi hai rotto il cazzo, hai capito?! Sei diventato appiccicoso e rompipalle! Sto male, non vedi? Sto soffrendo e a te non frega un emerito cazzo! Mi dici che ti succede?! »

« Che mi succede? », fece lui, alzandosi, col tono di voce rotto, come se stesse per scoppiare a piangere. « Vuoi sapere cosa mi succede, eh? » ripeté ancora con gli occhi pieni di lacrime. Non lo avevo mai visto così. « Succede che sei uno stronzo, un coglione con delle fette di prosciutto sugli occhi ed io non ce la faccio più! Vaffanculo, Harry! » singhiozzò qualche istante prima di chiudersi in camera sua.

Basito e mortificato, rimasi tutta la notte a riflettere, immobile sul divano.

Cosa era successo? Non avevo mai avuto modo di conoscere così affondo il lato fragile - ed effeminato - di Louis, quello fanatico, attento e sensibile che lo caratterizzava. Fissa in mente avevo l’immagine dei suoi occhi spenti e lucidi, gli stessi occhi che fino a quel mattino mi avevano guardato con fare dolce mentre dormivo. Avevo esagerato e avvertivo già il peso del mio errore.

I gemiti di Louis erano tanto forti da irrompere continuamente nel soggiorno, facendomi rabbrividire di volta in volta. Senza accorgermene avevo combinato un macello più grande di me. Perché avevo detto quelle cose che non pensavo? Perché ero stato così crudele? Con che cuore avevo gridato al mio amico di lasciarmi in pace? Lui che desiderava solo la mia felicità, che soleva svegliarmi amorevolmente con un caffè caldo, che spruzzava in casa aromi alla lavanda perché erano i miei preferiti. Lui che mi dava passaggi in macchina ogni qual volta glieli chiedessi, che si faceva sempre in quattro per me, che correva non appena avevo bisogno. Lui che rappresentava il fratello che non avevo, ma che da sempre desideravo avere. Mi sentivo un mostro.

Nella mia mente risuonavano il “vaffanculo” detto con enfasi e il “coglione con delle fette di prosciutto sugli occhi”. A cosa aveva alluso? Cos’era che non riuscivo a vedere? Negli ultimi giorni ero stato talmente tanto distratto che sarebbe potuta capitare qualunque cosa ed io non me ne sarei accorto.

Il loft era buio e silenzioso, incuteva terrore persino a me che vi vivevo. L’aria era viziata ed io mi sentivo soffocare. Qualcosa si era rotto fra Louis e me ed in cuor mio ero consapevole del fatto che le cose - e con cose intendo il legame che avevo con il mio amico - non sarebbero mai più state le stesse, neppure se mi fossi impegnato al massimo affinché si aggiustassero. Non potevo e non volevo accettarlo. Mia nonna, quando era in vita, soleva dire: « Una cosa rotta si può sempre aggiustare, Harry, ma una cosa aggiustata sarà sempre rotta. Ecco perché é importante non rompere mai le cose a cui teniamo realmente. Ricordatelo. »

Me lo ricordo, nonna. Me lo ricordo.

Continue Reading

You'll Also Like

8.3K 582 42
I personaggi della famosa saga di Harry Potter in un mondo moderno. Dei semplici adolescenti che attraverso i social condivideranno le loro vite scop...
127K 4.4K 79
Raquel Silva ha 18 anni ed è nata in Portogallo, ma ha passato gran parte della sua vita in Italia, a Torino. Durante le sue vacanze estive a Ibiza i...
15.1K 984 21
Torino, stagione 2024/2025 L'allenatore Thiago Motta arriva con le sue figlie. Vittoria - la più grande - segue gli allenamenti della squadra con co...
16.2K 656 27
"Fuoco e benzina" parla del legame intenso tra due individui che hanno affrontato difficoltà, fatto sacrifici e che sono stati l'uno per l'altro una...