La risposta finale

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Yoongi era rimasto in silenzio davanti ai poliziotti. Lo avevano portato via dalla sua stanza, con la forza, intimandolo per un paio di volte di non reagire per poi capire che non ne aveva la minima intenzione: l'uomo si faceva trascinare, rimaneva in silenzio fissando il vuoto, stava fermo dove gli chiedevano di stare. Nessuno si preoccupò di lui più del dovuto, neanche quando fu messo in una stanza specchiata, seduto davanti ad una scrivania, senza rispondere alle domande fatte dall'agente Kim Seokjin e il suo collega di cui non aveva ascoltato il nome. Gli occhi scuri e sottili del trentenne sembravano non vedere nulla, come coperti da una patina di assoluta assenza. Gli agenti della stazione cominciarono a credere che fosse pazzo, che fosse da far rinchiudere anch'esso in un manicomio, ma l'agente Kim aveva assicurato che fosse solo scosso e spaesato, che fosse semplicemente un idiota e che probabilmente – fissato com'era con gli alieni – si era lasciato prendere per il culo da quello psicopatico scappato dal centro.

Per tutto il tempo Yoongi sembrò, agli occhi degli altri, in un mondo diverso dal loro, incapace di recepire gli stimoli. La realtà è che il trentenne era troppo occupato a pensare per poter rispondere agli altri: sentiva, recepiva ogni domanda, ogni informazione aggiuntiva, ma non aveva voglia di dire loro ciò che stava elaborando. D'altronde non poteva loro importare quanto si sentisse preso in giro, solo, deluso e arrabbiato. Così si sentiva Min Yoongi: strappato dal suo vecchio mondo di apatia, buttato in un mondo tutto nuovo e perfetto e fatto tornare al precedente contro la sua volontà.

Kim Seokjin lo prese per un braccio e lo fece alzare dalla piccola sedia scomoda su cui era stato fatto sedere per ore, lo aveva accompagnato in modo meno brusco che all'arrivo, gli aveva aperto la porta e gli aveva chiesto se sarebbe riuscito a guidare fino a casa. Min Yoongi non rispose, semplicemente si avviò alla macchina, lasciando perdere gli appellativi sulla sua persona sussurrati ridacchiando, i rimproveri dell'agente Kim, la porta che si chiudeva alle sue spalle. Il complottista salì sulla sua macchina e, completamente vuoto, mise in moto e si immise nella carreggiata, guidando fino a casa. Fu un viaggio breve, passato quasi senza accorgersene; guidò sovrappensiero, in modo istintivo e meccanico, finché non si era reso conto di essere davanti alla sua baita, con il motore ancora acceso. Solo quando capì l'unica realtà di tutta quella faccenda sembrò scrollarsi di dosso quella spaventosa apatia: non era diventato solo, lo era sempre stato. Non vi era stato un attimo, nella sua esistenza, durante il quale si era sentito parte di qualcosa, parte di qualcuno. Solo Jimin era riuscito a farlo sentire la metà di qualcosa, ma il tutto era stato finzione. Min Yoongi spense il motore e cominciò a piangere disperatamente, poggiando la fronte sul volante e chiudendo gli occhi, lasciando che il corpo si scuotesse dai singhiozzi, urlando sommessamente nel veicolo, solo, in quella parte di bosco dimenticata da Dio, dagli uomini e, indubbiamente, da Jimin.

L'uomo rimase a piangere per ore e solo quando gli sembrò di non aver più lacrime in corpo scese dall'automobile e si incamminò in casa sua: era come l'aveva lasciata, era come era sempre stata e tutto, ormai, gli ricordava Jimin.

Le tre ore successive al suo rientro le passò a urlare ad ogni cosa lo facesse pensare a Jimin, distruggendo tutti, spostandola, provando a fare in modo che la loro casa diventasse la sua nuova casa. Quando si rese conto che togliendo e modificando il dolore non passava lasciò perdere.

Provò a dormire, ci riuscì, ma quando si svegliò il dolore era ancora lì, pronto a reinvestirlo come un treno. Provò a dormire ancora e ancora e ancora, e sebbene sparisse per un po' poi tutto tornava. Provò a guardare la tv, provò a camminare, provò a bere e bere sembrò indubbiamente la cosa che più lo aiutava. Le prime tre birre erano sofferenti, perché i ricordi venivano a galla e ogni suo muro veniva distrutto, ma dalla quarta sembrava dimenticare, sembrava poter immaginare cose nuove.

E, così, Min Yoongi cominciò a bere. Passò così i giorni successivi, completamente ubriaco nel bosco, in riva al lago, sul proprio divano. Si ritrovava con una bottiglia in mano e il mento sporco di vomito, con la nausea e un'emicrania che gli impediva di poter star tanto male per Jimin. Poi la sbronza passava e il dolore tornava più forte. Min Yoongi si rese conto che bere non era la soluzione: costava troppo e sarebbe dovuto andare più di quanto volesse in città a rifornirsi; sua madre, di certo, non gli avrebbe portato casse di birra ogni qual volta gli servisse.

Erano passati cinque giorni, il dolore cresceva al posto di diminuire, e Min Yoongi aveva appena preso il fucile dall'armadio, prendendolo con la sinistra dalla canna mentre la destra si portava l'ennesima birra del giorno alle labbra. Non era mai stato coraggioso, Min Yoongi.

Il trentenne, o ciò che ne era rimasto, si sedette sul divano e poggiò il fucile al suo fianco: finì la sua birra, finì di guardare il telegiornale, poi spende la televisione. «Dovrei lasciare un messaggio?» si chiese. Decise di lasciar perdere divertito, in parte, dal lasciare un alone di mistero nella sua morte e sapendo che ogni secondo perso sarebbe stata solo altra sofferenza.

Non fece in tempo a prendere il fucile, però, che bussarono alla porta. Min Yoongi poggiò la testa sullo schienale del divano, osservando con sguardo divertito l'ingresso: «Quanto può odiarmi la vita?» scosse il capo, trattenne una risata isterica «Prima si prende gioco di me, mi lascia solo nella mia sofferenza per giorni, poi quanto mi decido a-» deglutì e fece una smorfia, infastidito da una morsa di nausea data dalla leggera ubriachezza e dalle tante birre. Bussarono di nuovo alla porta.

«Andate via!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola «Non c'è nessuno, Min Yoongi è morto».

Bussarono ancora. Ci voleva coraggio a vivere, a decidere di smettere di soffrire per sé stessi e provare ad andare avanti, ma ci voleva coraggio anche a farla finita. Min Yoongi non era mai stato coraggioso e, alla fine, decise di prendere tempo e si alzò. «Arrivo, arrivo». Barcollò fino alla porta, girò la chiave nella toppa e la aprì: uno dei due dottori del centro psichiatrico, uno dei due uomini che gli avevano portato via Jimin, lo fissava con due occhi azzurro chiaro e intenso.

«E tu che cazzo vuoi?» sputò con odio Min Yoongi.

Kim Taehyung gli si buttò addosso e lo baciò.

Limós 127-6G - {Yoonmin}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora