Da quel giorno Kaleb  aveva preso l'abitudine di prendere una sedia dalla cucina, salirci sopra e affacciarsi, sempre alla stessa ora, dalla finestra del salotto che mostrava la scala antincendio e aspettare finché Sybil si ripresentava.
I primi giorni sembrava sempre la stessa, il livido che andava schiarendosi ed evolvendo il colore in una tonalità più verdognola.
Si sedeva sempre nello stesso punto e rispondeva a tutte le domande che Kaleb le faceva, e con sorpresa del piccolo, senza mai punirlo o costringendolo a prendere pillole dal saporaccio peggiore della Tachipirina, nonostante Kaleb si mostrasse sempre più curioso.
Man mano che i giorni passavano però, Kaleb notò che la sua pelle sembrava sempre più pallida, sudava sotto al cappuccio nero della sua felpa ed era riluttante nel farsi vedere in viso. Aveva preso l'abitudine di portarsi dietro un secchio di metallo, in cui infilava ogni tanto il viso per vomitare. A Kaleb non dava fastidio, ne faceva schifo, smetteva di parlare e aspettava che gli spasmi terminassero e che Sybil si riprendesse.
Non capiva perché continuasse a tornare da lui nonostante si fosse presa quella intossicazione da cibo che sembrava durare troppo tempo, quando i suoi amici si ammalavano, non andavano di certo a trovarlo, ma aveva imparato a starle accanto, a parlare e a stare zitto quando serviva. Aveva intuito che starle accanto la aiutava molto.
<Perché non ti curi, se sei un medico?> gli aveva chiesto un giorno, particolarmente doloroso per Sybil.
<Lo sto facendo. Ci vuole tempo> aveva risposto la ragazza, dopo essere riemersa dal secchio per la terza volta quella sera.
<Vuoi che chieda alla mamma...>
<No. Raccontami cosa hai fatto a scuola oggi dai>.
E così Kaleb raccontava tutto quello che gli veniva in mente, inventando qualcosa ogni tanto per rendere la storia un po' più interessante, fermandosi quando sentiva Sybil lamentarsi, per poi continuare senza che lei glielo chiedesse.
A Kaleb piaceva la compagnia di Sybil, era un'ottima ascoltatrice, togliendo il fatto che spesso diceva cose che Kaleb non capiva, oppure che sembrava triste, irrequieta e continuamente malata.
Kaleb, quando riusciva a scorgerla dietro al cappuccio, vedeva nel  suo viso tondo e nei suoi occhi dilatati e chiari una bellezza coperta dal dolore come un manto di nebbia. Era magra, forse troppo, i capelli neri sembrava fossero stati tagliati da lei stessa con le forbici da cucina, le labbra fine erano sempre screpolate ma si aprivano occasionalmente in un sorriso che la illuminava appena.
Era bella, una bellezza meno piena e molto più fragile della mamma di Kaleb, ma sempre bella. Kaleb sapeva che una volta guarita, tutti si sarebbero accorti di quanto bella fosse.
<Un giorno, quando sarò grande abbastanza, ti sposerò> le aveva detto il decimo giorno, spogliandosi da ogni scrupolo e imbarazzo.
<Ma davvero? E cosa mi convincerà a farlo?> aveva chiesto Sybil, ridendo come non faceva da molto tempo <Ti comprerò un anello. E una casa. E non ti darò mai botte> aveva risposto Kaleb, più serio che mai.
Sybil aveva dilatato lo sguardo su di lui.
<Ti farò dimenticare le cose brutte. Devi solo aspettare che cresca> aveva aggiunto.
Sybil aveva sorriso ancora <Sei l'uomo della mia vita Kaleb, ti aspetterò per sempre>.
Anche Kaleb era disposto ad aspettarla, tutti i giorni.
Anche quel giorno, che pioveva tanto, sporse la testolina chiara dalla finestra e guardò il punto dove solitamente trovava Sybil ad attenderlo, con il suo secchio e il suo zainetto.
Ma non c'era.
La aspettò, bagnandosi i capelli e prendendosi un bel raffreddore, finché sua mamma non arrivò a toglierlo dalla finestra prendendolo per un orecchio.
Gli asciugò i capelli con il phon e lo mandò a letto senza ascoltare scuse.
Il giorno dopo fu svegliato da rumori forti e squillanti e da luci rosse e blu che entravano dalla sua finestra.
Si affacciò alla finestra della sua camera e vide che c'erano tre auto e un'ambulanza, a sirene spiegate, tutte intorno all'ingresso del suo condominio.
Balzò giù dal letto e corse curioso al piano di sotto, dove sua madre e altre donne del palazzo parlavano tra di loro, assistendo alla scena.
Poco dopo una coppia di poliziotti uscì dal portone del condominio, tenendo fermo per le spalle un'uomo che a Kaleb fece spavento non appena lo vide. La sua pelle era di un colore grigiastro, i suoi occhi neri come la pece, non si riusciva a distinguere l'iride dal resto dell'occhio e i capelli sembravano incrostati da terra e fango. Puzzava, veramente tanto, come se si fosse rotolato dentro la spazzatura e ne avesse anche ingerita un po'. Voltò gli occhi che brillavano freddi verso Kaleb , e ghignò.
Kaleb si scostò e si nascose dietro le gambe di sua mamma.
<Abitava al nostro stesso piano!> esclamò la donna, allarmando le altre signore che le stavano intorno.
<Avevi quell'assassino di fronte alla porta?!> esclamò la signora Lee, che spesso Kaleb trovava dentro la sua cucina, a bere un tè e chiacchierare con sua mamma.
<A quanto pare...Come si chiamava la povera ragazza?> Chiese la madre, coprendosi la bocca con un paio di dita.
<Sybil...Jones. Lavorava al supermercato che c'è all'incrocio...>
Le orecchie di Kaleb presero a fischiare. Cosa c'entrava Sybil con quell'uomo orribile?
Corse via dalla scena, salì tutte le scale, una ad una, senza saltarne neanche una,  senza nemmeno fermarsi con un balzo alla fine di ogni rampa. Rientrò in casa, raggiunse il salotto e si affacciò alla finestra, dove sapeva avrebbe trovato Sybil, pronta a commentare e dire qualcosa di strano e difficile da capire. Lei avrebbe saputo rispondergli, avrebbe saputo consolarlo.
Ma lei non era lì. Sybil si trovava dentro l'ambulanza, coperta da un telo bianco.

Kaleb continuò ad affacciarsi alla finestra ogni giorno per mesi, sperando che Sybil tornasse, finalmente guarita, finalmente bella.
Non poteva credere che se ne fosse andata per sempre, aveva promesso di aspettarlo. Era arrabbiato, si sentiva tradito, ma non poteva dirglielo. Finchè capì che forse quello era il modo di Sybil di rimanere invariata nella sua memoria e di aspettarlo   finché non avesse raggiunto l'età giusta per poterla sposare; allora imparò ad accettare la sua scomparsa.

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