Extra 9: Città 8

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Gli ultimi passi sono i più difficili: essersi fatti aspettative su quel che avremmo trovato – ritrovato – carica il peso che uno si porta addosso. Gli ultimi passi, quelli che duecento trentatré anni fa furono i primi, non possono essere rimandati.

Non era questo il ritorno che le avevo promesso, non era questo quello che avrei voluto vedere. Sarebbe dovuta essere una questione di giorni, settimane, al massimo anni. Non secoli.

Ho sperato di vederla correre verso il mare, come faceva sempre, incoraggiata dall'avere il gelato o vedere i pesci che si spingevano fino a riva, con la speranza di ricevere molliche e briciole dai panini dei turisti, come allora. Ma il tempo dei suoi vestiti colorati è finito. Si è spenta. Anche lei, come i dintorni. Sono gli anni in cui il grigio, il bianco e il nero la fanno da padrone. A volte il rosso, ma quello non promette mai nulla di buono.

Scuoto la testa, cercando di scacciare quel pensiero. Non è per pensare alle ferite che siamo venuti fin qua. Per quello, potevamo non tornare – potevamo restare. Passo il palmo sugli occhi, cercando di scacciare il fastidio del pizzicore che si fa sempre più forte – potrei mentire, dire che è colpa del vento e dell'aria di mare, ma so che Mirah non ci crederebbe.

Sembra delusa. I capelli bianchi le dondolano sulle spalle, sfiorano la stoffa scura della giacca, mantenendo un leggero movimento dato dagli ultimi passi. Li ha lasciati sciolti, forse per sentire di nuovo l'aria di mare sfregare contro le gote.

Il silenzio è opprimente ora che non ci sono le sue solite risatine a rompere il silenzio delle macerie, non ci sono le sue corse tra i cumuli. Non è incurante del mondo e di eventuali pericoli. Qui non è il mondo in cui si è trovata di botto, qui è diverso. Lo è per entrambi.

Ha addosso la solita giacca troppo grande per lei, ma le maniche non si agitano oltre la punta delle dita: se ne stanno dritte, immobili, lungo i fianchi e lei resta ferma, in mezzo alla strada e, in confronto alle macerie intorno a noi e alla distesa nera del mare di fronte, sembra piccola. Più piccola di quel che è. Poco più che una bambina che non avrebbe dovuto vedere o sopportare tutto questo.

Dall'altra parte della strada la terrazza continua ad aprirsi sull'orizzonte, ma la balaustra è precipitata nel mare, chissà quanti anni fa ormai. Non ci sono più i colonnini a proteggere dal balzo che scende sulla piccola striscia di sabbia sottostante.

«Alla fine le onde hanno avuto la meglio, a quanto pare». Mirah ha dato voce a quel che pensavo. Avanza di qualche passo, lasciando dietro di sé leggere impronte che rivelano la vecchia pavimentazione a scacchiera nera e bianca della terrazza sul mare.

Il pulviscolo depositato forse è sabbia portata dall'ultima mareggiata, forse polvere proveniente dalle macerie alle nostre spalle.

Illudersi di poter ritrovare qualcosa è stato un errore e la desolazione fa solo più male di quanto non dovrebbe.

Mirah incrocia le braccia dietro la schiena, si dondola sui talloni e poi inclina la testa. Vorrei sapere a cosa sta pensando, ma ho paura a chiedere. Non voglio vivere con la certezza che tornare sia stato un errore, che non mantenere la promessa sarebbe stato meglio.

All'orizzonte una cappa di nuvole scure si tiene bassa, nasconde i colori dell'acqua. Non promettono nulla di buono e rimanere qui non è l'ideale in caso di mareggiate. In qua e là ci sono pezzi di legno, tronchi d'albero depositati sulla terrazza dalla forza del mare e che ora interrompono la continuità del pavimento, spezzando il paesaggio. A destra e sinistra il panorama è sempre lo stesso e anche quei pochi spazi verdi che avrei voluto rivedere sono stati mangiati dal tempo. Non c'è più nulla dell'atmosfera di pace e tranquillità delle lunghe serate estive, quando anche il sole sembrava attendere prima di lasciare il posto alla notte.

Un colpo di vento improvviso mi fa rabbrividire. Per il freddo e per il tanfo. Porta con sé odore di marcio, ma che sia dal mare o dalla terra poco cambia. Sfrego le narici con il dorso della mano, cercando di scacciare la sensazione, ma so che una volta che si è attaccata addosso non cambierà tanto, qualsiasi cosa faccia. Il freddo si infila dentro i vestiti e scivola sotto le toppe mal rattoppate, andando a sfiorare la pelle.

Dovrebbe essere primavera, quasi estate, ma non c'è niente che dia un segno in quella direzione – non il sole che crea riflessi sull'acqua, non il chiacchiericcio della gente e Mirah che chiede di continuo il gelato.

Quando quell'inverno è arrivato, non se n'è mai andato.

Sono stato stupido a pensare che il tempo potesse essere diverso qui, che anche a quasi un giorno di cammino le cose fossero cambiate. Non c'è una bolla felice, non c'è un posto che si sia salvato: sono tutti dannati, inferni sulla terra.

Mirah dice qualcosa, ma il vento si mangia le sue parole, portandole via. Mi avvicino, mettendole una mano sulla spalla. Lei si volta, tira su con il naso e si stropiccia le palpebre con il polsino della manica, poi si avvinghia al braccio, stringe le mani sulla stoffa. Mi guarda con gli occhi lucidi.

«Non ho capito».

«Pensavo che sarebbe stato bello prendersi un gelato».

Non è il primo no che mi tocca dirle. Non è la prima volta che mi tocca ingoiare il rospo e dirle la verità perché mentire è troppo.

Troppo difficile da far credere per tanto tempo.

Troppo difficile da sopportare.

«Ma non penso sia possibile» aggiunge dopo un attimo di silenzio, a voce appena più bassa.

«No» è l'unica cosa che riesco a dirle.

Mentire è troppo inutile e lei non è scema.

Mirah non ribatte e ritorna il falso silenzio accompagnato dallo sciabordare lento delle onde contro il muro.

Sorrido appena, ma gli occhi pungono di nuovo. Non è l'aria di mare questa volta. Non è il vento che arriva addosso.

Avevo dimenticato cosa significasse avere di nuovo quella compagnia, data così tanto per scontato. Non c'è stato motivo di ritenerla speciale fin quando è stata una costante: solo con il sibilo del treno in partenza verso l'interno mi sono reso conto di quanto fossero quelle piccole cose a rendere speciale il vivere qui.

Ingoio a forza la saliva, cercando di scacciare il blocco in gola che inizia ad opprimermi.

Questo non è quello che speravamo.

Non è quel che avrei immaginato.

Non è quel che lei avrebbe dovuto vedere.

Ma è rimasta comunque una promessa portata a termine.

Mirah mormora qualcosa, si stringe di più contro di me. Le do un bacio sui capelli, stringendola più che posso.

Sì, siamo tornati. Siamo a casa.




L'angolino buio e misterioso

Ssssssssssssssssssssssssssssssssì aggiornamento a casissimo ( e soprattutto scritto in due ore nemmeno in raptus di follia estrema). Sul gruppo Discord del nanowrimo abbiamo fatto "un evento" che consisteva nel consegnare entro le 22 un racconto sul tema "ritorno alle origini". L'unica idea abbastanza fattibile è stata questa, ma mi sembrava carino caricarla pure qui.

Ignoriamo tutti il fatto che ho scambiato l'8 di Livorno con il 9 di Pisa. Vero che lo ignoriamo?

Pensiamo alla regia che ha scoperto paesi toscani dal nome discutibile. 

 Originariamente volevo portare il pov di Mirah, ma dettagli. Ho trovato più facile Aeron. 

Torno a guardare roba discutibile su netflix per ispirazione alle prossime storie, cia'.

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