XIX

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Non c'era più nessuno.

I tre carrozzoni vuoti la salutavano davanti all'immensità del capannone. Niente paglia o ciotole, nessun corpo sdraiato, niente.

Anna chiuse gli occhi e li riaprì, con fatica immensa.

Non era lo stesso narcotico.

Il pensiero derivava direttamente dall'amaro in gola, di nuovo. L'ultimo ricordo era il terrore notturno mentre non riusciva a dormire, l'attesa, al settimo giorno, dell'iniezione conclusiva di quella spassosa avventura. Non erano sempre stati sette giorni, in passato ne erano trascorsi anche otto o nove, se ricordava bene.

Sono di più quando Lui non è qua dentro. Sono di più quando va via. Ma se è qui è preciso.

Così era certa che quella notte fosse LA notte, e non aveva voluto dormire, come quando in aereo non si staccano gli occhi dal finestrino per poter avere un ultimo pensiero coerente prima di precipitare. Si era immaginata il rumore di passi, più che sentirlo, lo spostamento davanti a una gabbia, poi a un'altra. Il colpo silenzioso, poi ricaricare il fucile o quello che era e passare alla prossima, il visore notturno sugli occhi, tutto il tempo del mondo. Non c'era altro, alla fine non era stata capace di rimanere sveglia ed ora eccola lì a riaprire gli occhi quando tutto era finito. Le faceva male la testa, la sentiva pesante, le sembrò di essere tornata al primissimo giorno. I tre carrozzoni davanti al suo non erano a fuoco, ma che fossero vuoti era un fatto.

Ha lasciato solo me.

Ha ucciso tutti, li ha portati via e ha lasciato solo me.

Dunque sarebbe finita come per Mino, solo senza quella pallida speranza che rappresentava la presenza di altri, il conforto delle voci, qualcuno a cui dire le ultime parole.

Per esempio "So di cosa è capace.".

Un moto di nausea

Devo vomitare sulla latrina.

e subito l'angoscia che bussava. Perché farlo? Ormai era finita, a che sarebbe servito scavare? Se l'aveva lasciata lì sicuramente l'aveva anche chiusa dentro.

Non arriverò mai alle finestre, nemmeno se salgo sul tetto del carrozzone più alto.

Vorrà dire che morirò per terra. Ma per terra, non qui dentro.

Ruotò di fianco e quasi sbatté contro il sacchetto del cibo, rigonfio e unto. L'odore le aumentò la nausea, spinse con i piedi nel tentativo di ruotare, ma erano deboli, perdevano la presa.

Fino alla latrina, tengo duro fino alla latrina.

Aveva usato le mani, dolenti soprattutto intorno alle unghie. Si era succhiata le dita, l'ultima notte, perché Lui non si accorgesse del sangue. Poi si era maledetta per l'errore, era meglio lasciarle sporche per non dare nell'occhio, così le aveva tuffate in mezzo agli escrementi, un'infezione era sempre meglio di una resa. Spingendosi sui gomiti era riuscita a girarsi verso l'altro lato, la paglia l'aiutava a scivolare. Iniziava a vederci meglio e la buona notizia era che l'angolo era lercio come sempre, non lo aveva toccato. Ci arrivò in un tempo che le sembrò interminabile. L'odore di ammoniaca era disgustoso e le risparmiò lo sforzo di provocarsi il primo rigurgito. Non uscì granché, succhi gastrici e schiuma, segno che lo stomaco era vuoto da almeno ventiquattr'ore.

Meglio che niente.

Appoggiò la testa al legno, si voltò verso i carrozzoni davanti al suo e finalmente riprese a ragionare con lucidità. Li conosceva tutti e tre. Uno era quello con la griglia piccola, che era stato vuoto sin dal suo arrivo. Il secondo era quello di Saverio. Il terzo, ripulito di tutte le schifezze, era quello di Vasco.

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