Be born again

1K 49 3
                                    

C’erano momenti in cui su quel maledetto pianeta si raggiungevano anche i  40° all’ombra ed altri, come quella notte, in cui gli dei scatenavano tutta la loro furia, riversandola sotto forma di fastidiosissime goccioline d’acqua. Il loro ticchettio sembrava disturbare il Saiyan, che avvertiva ognuna delle infide gocce schiantarsi violentemente contro il vetro della portafinestra. La meditazione era un’ottima tecnica per poter sviluppare il proprio potenziale psicofisico, ma richiedeva una concentrazione e una presa di coscienza considerevoli, che il Principe non riusciva mai a raggiungere, figuriamoci poi con un baccano del genere. La cosa non andava bene. Con un unico rapido movimento si tirò su e osservò assorto lo spazio che lo circondava. Erano passati un paio di mesi, ma quel luogo gli era piuttosto familiare ormai. Forse perché trascorreva la maggior parte del tempo in quella stanza. La Gravity Room  offriva dei vantaggi enormi rispetto ad una landa desolata e possedeva delle apparecchiature sofisticate che gli permettevano di sfidare continuamente se stesso e mettere alla prova i suoi limiti. Forse potevano competere con quelle presenti sul suo pianeta. O meglio, quelle che una volta erano presenti sul suo pianeta. Magari avrebbe potuto portarsi via quella donna, quando avesse voluto andarsene. Gli sarebbe tornata molto utile. A proposito, dov’era? In genere si faceva sempre vedere passata una certa ora, per ricordargli che doveva anche riposare se voleva superare Kakaroth il prima possibile. Ma stranamente quel giorno non si era fatta viva. Aggrottò la fronte e decise di andare a controllare che la fonte di ogni suo pasto fosse ancora nel mondo dei vivi. Magari è uscita, fece la sua coscienza. E con chi diavolo sarebbe uscita? Con quell’idiota? Yampo. Yanco. Yamcha. Scosse la testa, incredulo. Si rifiutava di credere che un’umana tanto intelligente si fosse fatta abbindolare da un essere tanto spregevole. Se la Gravity Room gli era familiare, il resto dell’abitazione gli era del tutto sconosciuto. Era stato in cucina un paio di volte, in giardino (costretto a prendere parte ad uno strano rito noto come “prendere il tè” dalla madre dell’umana)  e nel laboratorio del Sig. Brief. Ma per il resto non aveva mai esplorato le altre camere. Imboccò la prima uscita, e si ritrovò davanti una serie di porte. Un movimento richiamò la sua attenzione e con un altro di gran lunga più veloce e fulmineo mise con le spalle al muro il suo rivale. “Ahia, accidenti. Lasciami andare! Guarda che io ho studiato arti marziali! O meglio…un pochino. E comunque io sono…”
Non la lasciò terminare poiché le coprì la bocca con la mano nuda. Quando Bulma Brief ebbe riconosciuto il suo aggressore spalancò la bocca in un gran sorriso, che poi si tramutò in uno sguardo truce. Il principe aggrottò le sopracciglia e la lasciò andare, ma si pentì subito dopo di averlo fatto perché la terrestre cominciò a gridare e a far ondeggiar e le sue mani al cielo nel tentativo di esprimere tutta la sua rabbia nei suoi confronti.
“Ma dico, sei impazzito? Aggirarti così nell’oscurità totale e prendermi alla sprovvista. Vuoi farmi morire di crepacuore?”
“Di crepacuore no, ma ucciderti sarebbe una prospettiva allettante in questo preciso momento.”
Vegeta strinse gli occhi a fessura e avanzò fiero verso la donna che cercava intanto di mantenere intatti i suoi buoni propositi.
“Adesso non parli più?”
Ovvio che non parlava. Bulma Brief non aveva mai visto un uomo così bello. E ne aveva avuti di ragazzi. Eppure in lui c’era qualcosa che la attirava ad un livello primitivo, come una falena attratta dalla luce di una lanterna. Si ritrovò ad indietreggiare e continuò a farlo per sottrarsi idealmente allo sguardo del guerriero fino a quando si ritrovò con le spalle al muro. Nel vero senso della parola.
Vegeta cercò di distogliere lo sguardo, ma gli fu impossibile. I suoi occhi erano fissi nei suoi e il suo sguardo era catturato dall’azzurro di quello di lei. Riconobbe immediatamente quella sensazione. Era quella che gli avevano insegnato a reprimere fin da quando aveva cinque anni. Quella che avrebbe determinato la sua sconfitta durante un incontro. Quella che lo avrebbe portato alla morte per mano nemica. Era la paura. Eppure quella volta non gli sembrò poi  così tanto male, non l’avvertì come una fonte di pericolo, forse perché in quel momento i suoi occhi si erano chiusi e le sue labbra si stavano unendo a quelle di lei, in una lenta e sublime danza. Aveva ragione. Quella era paura. Ma non la paura che potessero fargli del male, bensì la paura che qualcuno ne potesse fare a Bulma.

An unsung hero -- Vegeta & BulmaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora