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Nel gruppo degli alcolisti anonimi della mia anima parlavi solo tu. La tua voce era forte, calda, durante i miei inverni freddi. La sensazione di avere un solo violino a comandare il grande casino in me era viva, vivissima, e faceva male. Io ti scrivevo ma tu eri allergica a noi, a me, ed io non potevo farci niente.

Ti piaceva ridere delle mie cose, dei miei errori da bambino, mentre tutto il mondo stava a guardarci tu guardavi solo me, dentro di me.

Io ero felice perché tutti desiderano qualcuno che guardi solo te.

Ma forse lo ero anche di più perché ai miei occhi sei sempre stata bellissima, anche quando eri triste, quando eri distrutta.

Mentre ignoravi il mio viso io ti guardavo, da lontano però, non volevo che gli altri se ne accorgessero ed iniziassero anche loro a guardarti come facevo io, anche se semplicemente non avrebbero potuto. Io ti guardavo col cuore, come un innamorato fa in ogni momento della sua vita con la persona che, quel cuore, lo riempie ogni giorno.

Ed invece no, eri solo una voce, una maledettissima voce che Dio solo sa quanto avrei voluto sentirla pronunciare il mio nome. Il mio mondo, flebilmente legato ad un ricordo, ad una giornata, veniva giù al primo terremoto e non c'era via di scampo, nessun palazzo poteva reggermi.

Quante volte ho pensato a noi in quel pomeriggio, lì, a contare passi ed a ridere perché quei passi, forse li contavamo uno sì e dieci no. Ti coinvolgevo però, questo sì, e tu ti facevi coinvolgere dalle mie cazzate che mi venivano in mente.

Spesso incrociavamo lo sguardo ma tu tendevi ad abbassarlo troppo presto, forse per paura che io potessi svelare i tuoi più intimi segreti per farne uso ed io t'avrei voluto dire, con dolcezza, che le tue debolezze, i tuoi star male, sarebbero stati nostri.

Non mi hai ascoltato, o forse non ci sei riuscita.

Ho il cuore in riserva.

Fai ancora in tempo a salvarmi.

Ti prego.

A Galway solamente per un panino.

Sono già sul pullman e questa giornata per me è solo un fallimento. I demoni, fottutamente in maggioranza, mi hanno travolto e fatto girare la testa vorticosamente ed io, debole, mi sono fatto coinvolgere. Sconfitto guardo fuori dalla finestra, con le distese immense e verdi che scandiscono il mio viaggio di ritorno ed il cielo nuvoloso che mi osserva quasi colpevolizzandomi sull'essermi arreso anche qui, dopo poco tempo. Sono giù e non c'è nessuno disposto a tirarmi fuori da questo maledettissimo pozzo perché, semplicemente, non c'è nessuno e basta. Giocherello con i cavi degli auricolari attorcigliati cercando di sbrogliarli e la mia mente, per qualche momento, non va da nessuna parte. Va bene così, assolutamente, deve stare ferma. Mai come ora non devo pensare a niente e riprendermi perché sì, oggi ho perso, ma posso ancora farcela, non ho niente da perdere; non ho un posto preferito, un posto che possa salvarmi, nel mondo, ed io lo sto cercando.

Sono coraggioso.

Devo esserlo.

Più che mai.

Il mio animo, un po', riprende fiducia in sé stesso e tendo ad avere addirittura una smorfia che vorrebbe essere un sorriso stampata sulla faccia.

Mi ritroverò, ne sono sicuro, e lo urlerò al mondo che mi sono ritrovato, che il mio viaggio mi ha reso forte e mi ha dato un posto che posso chiamare casa.

Ritornarci poi, se io e questo posto dovessimo dividerci, perché si ritorna sempre dove si è stati bene ma soprattutto dove si è stati.

Perché esserci è quello che voglio, è quello cheinseguo, è quello che mi fa capire che, forse, in questo mondo, ci sono ancheio.     

D'improvviso | #Wattys2017Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora