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Tentai di aprire gli occhi ma qualcosa di vischioso e raggrumato mi impediva di schiudere le ciglia.
Usai le dita per pulirmi. Staccai lentamente tutti i coaguli di sangue secco che mi annebbiavano la vista e che mi incollavano i capelli alla fronte. Ero ancora riversa sul tappeto con la guancia premuta sul telecomando. Alla tv un presentatore cercava di vendere a telespettatori dei tappeti di dubbia provenienza, degni del reparto occasioni di un grande magazzino.
Nonostante i sensi intorpiditi mi misi in ginocchio. La maglietta dei Led Zeppelin che portavo annodata in vita era completamente inzuppata di sangue. Soffocai un grido. Alzai la t-shirt con le dita tremanti e scandagliai ogni centimetro di pelle alla ricerca di una ferita. Niente.
La confusione che avevo in testa sparì quando mi girai verso il corridoio che dava sull'ingresso dell'abitazione. Il corpicino di Michael era immobile a pancia in giù. Un taglio profondo gli aveva reciso la colonna vertebrale, esposta e vivida nella pozza di sangue nero. Non osai avvicinarmi. Non ricordavo come e nemmeno perché, ma sapevo con certezza che ero io la responsabile. Un pessimo esordio da babysitter.

Feci mente locale: buio. Cercai nel passato, nelle ore in cui ero stata incosciente, ma non trovai alcun indizio a cui aggrapparmi. Io e Michael avevamo passato il pomeriggio da soli a guardare cartoni animati, su questo non ci pioveva. Non avevo fatto entrare nessuno in casa, se non il pony express della pizza che avevo ordinato per cena. Il pony express della pizza... Eppure non c'era traccia delle confezioni di cartone, né bicchieri di bibite gassate in giro.
Qualcosa non tornava. Avevo un'unica sicurezza: Michael era morto, ed ero stata io a ridurlo così.
Rimasi immobile alcuni istanti contando tutte le conseguenze del mio gesto inspiegabile. Persi il conto e mi alzai da terra, scattando come un corridore in una gara di staffetta. Arrancai fino al piano superiore ed entrai in bagno.
Buttai il viso sotto il getto del rubinetto e usai tutto il sapone liquido della boccetta, ma nonostante il mio impegno l'acqua che finiva nello scarico continuava a essere cremisi.
Afferrai l'asciugamano più grande che mi era capitato a tiro e ci affondai il volto. Sfregai, sfregai ancora più forte. Poi finalmente decisi di guardarmi allo specchio.
Indietreggiai sconvolta e rovesciai il cesto dei panni sporchi. L'odore di sudore stantio di alcune canottiere si mescolò al sentore metallico che mi avvolgeva.
Niente. Allo specchio non vedevo niente. Mi avvicinai alla specchiera toccandomi nervosamente il naso, gli occhi, la bocca, i capelli, che eppure sentivo tra le mani. Ma davanti a me non c'era il mio riflesso. Corsi nella camera degli ospiti, aprii l'armadio la cui anta destra fungeva da specchiera e mi ci misi davanti. Ancora niente.

Mi buttai giù dalla scalinata che avevo risalito poco prima. Ritornai nel salotto e rovistai nella borsetta alla ricerca dello smartphone. Rovesciai per terra tutto e finalmente lo trovai. Girai la fotocamera verso di me e mi scattai una fotografia, poi un'altra, poi un'altra ancora. Controllai nella memoria del telefono ma tutte e tre risultavano vuote. Si vedeva soltanto la parte della stanza dietro di me. E Michael sullo sfondo, immobile.
Accettai la situazione perché non poteva essere reale.
Rimisi nella borsetta gli oggetti che avevo sparso sul pavimento e raccolsi il golfino poggiato sul tavolo della cucina. I genitori di Michael non sarebbero rientrati prima della fine del weekend. Mi avevano pagata in anticipo promettendomi un extra una volta tornati. Immaginai che non sarebbero stati per nulla soddisfatti del mio servizio.

Spensi la televisione e abbandonai immediatamente la casa. Ragionavo con lucidità, pianificavo, mettevo in pratica. Dopo tutto quello che era successo, dopo tutto quello che non ricordavo, l'unico dettaglio che mi sconvolgeva era non provare nemmeno l'ombra di un senso di colpa.


Il regno dell'EffimeraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora