Scossi la testa, non volendo parlare del mio cambio d'umore repentino. Indossai un sorriso al quale lui non avrebbe mai creduto e mi allontanai dal bancone, riacquisendo lucidità. Dovevo impegnarmi in una qualsiasi attività che mi tenesse occupata e che non mi facesse sprofondare nei meandri della mia testa, il luogo che più tentavo di aggirare, percorrendo strade secondarie distanti dai pensieri.

Non lo tranquillizzai e non gli diedi una risposta. Semplicemente, decisi di distrarmi e di andare a parlare con il nostro cliente abituale, l'unico che non avrebbe lasciato il Kenmore neanche sotto tortura. Dipinsi sul mio volto un'espressione serena, priva di turbamento, e raggiunsi il tavolo del signor Rogers in pochi passi. Mi sedetti sul divanetto di fronte a lui senza nemmeno chiederglielo, perché sapevo che lo apprezzava.

«Piccola R» sorrise, passando un fazzolettino di carta sulle labbra screpolate sporche di ketchup. «Oggi non avete molto di cui occuparvi, vedo».

«Solo oggi?» ridacchiai, beffandomi della scarsa affluenza. Con i gomiti inchiodati al tavolo e il mento sulle mani, guardai fuori. Il buio del cielo grigio era inquietante; la pioggia aumentava l'umidità soffocante.

«Ti ho vista strana, prima. È tutto okay?» mi domandò.

Il suo quesito non mi stupì. Il signor Rogers, da quando l'avevo conosciuto, si era sempre comportato come un padre. Solo qualche mese dopo venni a sapere che lo faceva perché quello, purtroppo, era un ruolo di cui sentiva la mancanza: anni prima perse sua figlia, una bambina che aveva ancora tutta la vita davanti, a causa di una malattia di cui aveva sofferto fin dalla nascita. Dopo un lungo e tedioso periodo di cui mi parlò a cuore aperto, l'atteggiamento paterno che assumeva nei confronti di me e Lewis stava curando le sue ferite, seppur non del tutto.

«Un po' sopraffatta, ma sto bene», lo rassicurai. «Stanno succedendo delle cose strane e non riesco a non pensarci» confessai. Proferendo quelle parole, realizzai che il signor Rogers conosceva chiunque, a Worcester. Forse anche quella ragazza.

La sua espressione confusa e al contempo curiosa mi indusse a parlarne. «C'è una ragazza che è venuta diverse volte qui e mi ha lasciato dei messaggi inquietanti, anche sullo specchio del bagno... Non faccio altro che chiedermi chi lei sia. In più, ho scoperto che è legata a un mio amico e che anche a lui stanno arrivando dei bigliettini del genere».

«Ti va di descrivermela? È possibile che io l'abbia già vista» ipotizzò, interrompendomi.

«Ha i capelli ricci, la carnagione appena più scura della mia... Sembra una ragazza normale, a dire la verità. Ha sempre il rossetto sulle labbra e tutto quello che so è che le sue iniziali sono N e S».

«E chi è il tuo amico coinvolto nella vicenda?»

«Blake Mitchell, lo conosce?» indagai.

«Oh, certo che conosco i Mitchell. Quella famiglia è sempre stata sulla bocca di tutti, qui».

Curiosa, mi raddrizzai sul divanetto e spostai la mia attenzione sull'uomo di fronte a me. Si guardava intorno, come a catturare ricordi e aneddoti sparsi nell'aria circostante. Il mio silenzio lo invitò a continuare.

«Quando ero più giovane, andavo spesso al loro poligono di tiro per sparare qualche colpo. Connor e Madison erano fantastici» sorrise, rammentando alcuni momenti felici del suo passato. All'udire quei nomi, sul mio viso si dipinse un punto interrogativo che lui notò. «Sono i genitori del tuo amico», mi spiegò.

Ava non mi aveva mai raccontato nulla della sua famiglia. Sapevo che suo fratello aveva un legame indissolubile con lei e sua madre, ma, oltre a quello, ero ignara di tutto. Prima di quella conversazione non conoscevo né i nomi dei loro genitori, né i particolari della storia che il signor Rogers stava narrando. Volevo costringermi a rimanere nel mio, curandomi solo di ciò che mi riguardava personalmente, ma la curiosità ebbe la meglio, così lasciai che il racconto proseguisse.

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