La ragazza lupo

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Non sapevo bene in che luogo mi trovassi. L'oscurità era piacevole e quasi pacifica. Avevo l'impressione di essere inghiottita da un pozzo senza fine, il silenzio era assoluto. Poi, pian piano, dei rumori simili a sussurri vennero a spezzare il vuoto come timidi battiti di ali. Mi sforzai di discernere il significato di quei sussurri, invano. Mi resi conto che per la mia mente era troppo, stavo per sprofondare nuovamente nel sonno e avevo paura che questo non avrebbe avuto fine. Così mi contentai di ascoltare e non tentar più. Nella mia immensa solitudine, mi parve di aver sentito, a intervalli diversi, mani calde o tocchi bollenti. Poi il nulla. La quiete tornò a cullarmi. Fosse questa la morte? La sensazione di essere sola al mondo, nel buio dello spazio?

Dopo ciò che potevano essere ore, giorni o anni, i sussurri tornarono insistenti. No, non sussurri, mormorii. Voci. Voci che conoscevo. Non ero morta, non era possibile. Incoraggiata da quella consapevolezza provai ad aprire gli occhi, impaziente e ansiosa di vedere ciò che succedeva accanto a me. Non ci riuscii, era letteralmente impossibile. Avevo l'impressione che due macigni mi pesassero sulle palpebre, impedendomi di sollevarle. Due zone differenti del mio corpo emanavano calore più delle altre. Una, ne ero praticamente sicura, era la mia mano. L'altra si trovava sempre alla mia destra, ma non riuscivo a capire se fosse effettivamente la mia spalla o il mio braccio. Forse tutte e due. Questo calore era più insistente dell'altro. Era dolore. Ora riuscivo a rendermene conto: la mia spalla destra bruciava intensamente di dolore. Come se dei coltelli fossero affondati nella mia carne.

-Bella aspetta te.

Mormorò una voce materna ben conosciuta. Mi ci volle un attimo per frugare fra i ricordi e trovarla. Sue. La mia mano destra venne stretta da qualcosa che evidentemente la circondava senza che lo sapessi. Una stretta bollente.

-Non adesso. Non la lascio sola.

Quella voce era rauca e dolce come il miele, mentre pronunciava quelle parole a voce talmente bassa che parve sussurrarle. In meno di un secondo riconobbi quel timbro tanto famigliare, mi sembrò che automaticamente tutte le mie paure fossero scemate con esso. Ora andava tutto bene. Jacob.

-Non va da nessuna parte, Jake. – disse Emily, ne ero sicura, era lei. Volevo sapere dove mi trovassi e soprattutto perché non riuscivo a svegliarmi. Perché ero arrivata a trovarmi in una tale condizione.

-Non importa. Ho bisogno di lei. – la voce si ruppe nel mezzo. -Ne ho bisogno Em', tu lo capisci vero? È tutta colpa mia.

Ogni informazione sensoriale che riuscivo a ricevere dal mio stato semi-incosciente mi aiutò a rimettere insieme i pezzi principali di un puzzle che la mia mente aveva cancellato. Mi ricordai della discussione con Jacob. Dell'arrivo di Paul. Della rabbia esplosa. Poi si era fermato tutto.

I passi si avvicinarono, leggeri. Lo sfrusciare di una mano su un tessuto come una carezza regolare.

-Smettila di farti del male.

Un sospiro pesante.

-Facciamo del nostro meglio, ma nel nostro mondo certe cose possono scapparci di mano.

La stretta attorno alla mia mano si rafforzò. Un tocco caldo e umido ne sfiorò il dorso, come due petali di rosa bagnati dalla rugiada e dal sole mattutino.

-Jacob.

Chiamò una voce profonda, dall'altra parte della stanza. Autoritaria e rassicurante allo stesso tempo. Sembrò esserci uno scambio silenzioso di sguardi, perché nessuna parola venne pronunciata. Il calore attorno alla mia mano si affievolì, la sentii più leggera mentre quelle lunghe dita si slacciarono dalle mie. La stessa calma che aveva avvolto il mio cuore venne rimpiazzata da una fredda sensazione di solitudine. Dei fili invisibili si allungarono da esso fino a tendersi, sempre di più. Mi restava soltanto il dolore pulsante alla spalla e le coperte sul mio corpo, nel loro misero tentativo di compensare quella perdita di calore. Il pavimento si lamentò leggermente mentre venne calpestato da un via e vai di passi. Un sussurrio in quileute e lo sgabello scricchiolò nuovamente al mio fianco. Volevo aprire gli occhi, erano ore che ci stavo provando. E passarono altrettante ore – le percepii così – prima che la luce iniziò a filtrare nel buio. Le immagini mi parvero sfocate: una lampada appesa al soffitto di legno. Provai a sbattere le palpebre cercando invano di chiarire la mia vista. Nella mia periferia, a destra, si stagliava una figura scura. Voltai a fatica il capo, pesante come un macigno, che mi inviò segnali dolorosi ricordandomi che anche esso aveva subito un colpo. Sbattei ancora le palpebre più volte, incapace di riconoscere l'uomo seduto al mio fianco che mi sovrastava con la sua altezza. Il dolore che stavo provando causò l'accumularsi delle lacrime, lubrificando i miei occhi nella loro spossatezza. La mia vista si fece molto più nitida. Il viso famigliare di Sam si fece chiaro davanti a me: mi apparvero i lineamenti decisi del suo viso, le sopracciglia folte e gli occhi profondi. Il suo sguardo, usualmente imperturbabile, era ora l'incarnazione dell'inquietudine.

Il colore dell'ariaUnde poveștirile trăiesc. Descoperă acum