Se avessi una monetina per tutte le cose che hanno detto di me, oggi potrei permettermi un'auto. Tutti a 14 anni vedevano la scuola come un carcere, un posto dove annoiarsi ed essere puniti, dove l'unico svago era stare con gli amici.
Io lo vedevo come il patibolo. Entrare in quella scuola era una delle più grandi sfide che un ragazzo potesse sopportare. Quando sei debole di carattere poi, tutto è ingigantito. Se parlavano di me...mi riconoscevano, ero la ragazza che entrava a testa bassa con gli auricolari nelle orecchie e lo sguardo spento. Che appena qualcuno la guardava per un secondo di più pensava sempre a male e si torturava con quei pensieri per i giorni successivi. Ero quella che entrava in classe e si avvicinava subito a quei pochi amici che aveva, le chiacchiere degli altri non le avevano permesso di farsene altri, e ci restava affianco. Come se fosse terrorizzata dal fatto di restare sola un minuto di più. Lei capiva tutto. Quando la insultavano di nascosto, quando facevano doppi sensi, quando semplicemente ridevano, lei sapeva che era per lei. Era orribile la sensazione che provava quando in classe si parlava di diversità o di emarginazione. Contava nella sua testa i minuti che mancavano alla fine della lezione solo per paura che il suo nome venisse fuori da quei discorsi. Come se avesse paura che un lampione la illuminasse completamente e tutti aspettassero che lei parlasse.
Era una di quelle che non veniva scelta da nessuno apparte dalla sua migliore amica per i gruppi, da quelli dei cartelloni a quelli delle squadre per lo sport. Era una di quelle che piangeva ogni volta che nel gruppo su internet della sua classe scrivevano, quasi temesse anche questa volta di essere messa in ballo come precedentemente era successo. Era una di quelle che salvava le foto depresse e leggeva sempre i post di tumblr. Una di quelle che sorrideva sempre ma appena iniziava a pensare le veniva la pelle d'oca e le bruciava la gola. Una di quelle che aveva pensato al suicidio o a ferirsi troppe volte, tanto da sentirsi in colpa verso se stessa. Una di quelle che un giorno si era svegliata stufa e ogni commento le era scivolato addosso. Si programmava discrosi da dire ma una volta arrivata in classe non ci riusciva, ma nonostante questo non soffriva più come prima. Ero io. Prima di incontrare Noah. Avevo costruito un muro dentro di me e lui l'aveva fatto in frantumi completamente. Mi aveva lasciata a nudo e mi aveva trattata come una principessa, come tutte le ragazze meritano di essere trattate, sopratutto se hanno ricevuto solo spintoni dalla vita. Una volta che ero felice davvero, tutto è tornato alla normalità,alla solita monotonia. Lui mi aveva tradita e io ero sola di nuovo...o non proprio. Io e mio figlio contro i sussurri, le polemiche e gli insulti. Avrei dato a mio figlio un futuro migliore però, non avrebbe sofferto come me.
Non sono in grado di difendere me stessa, figuriamoci un bambino.
La sofferenza stava ritornando."

Mi alzai di scatto. Avevo avuto un incubo. Il ricordo della mia vita di neanche un anno fa. Mi coprii con la coperta calda e soffocai un singhiozzo. Avevo vissuto i momenti più belli della mia vita dentro una bugia. Mi accarezzai la pancia e sospirai. Mi calmai al pensiero di sentirmi così insignificante solo perché la notte porta solitamente pensieri brutti e bui. Mi misi a pensare a mio figlio e all'ecografia che mi aspettava il giorno dopo e cullata da quei dolci pensieri mi addormentai un'altra volta.

-Noah, dove diamine sei? È la terza telefonata che ti faccio, dovevamo già essere in ospedale, per favore sbrigati!- attaccai furiosa. Non sapeva fare l'uomo, figuriamoci il padre.
Un clacson attirò la mia attenzione, dalla finestra notai la sua macchina e corsi fuori gridando un "io vado!".
Salii in macchina e lui partì immediatamente.
-Si può sapere dove cavolo eri?-
-Non mi è suonata la sveglia, scusa tanto Lulù!- disse rammaricato.
-Non chiamarmi così! Ti ho telefonato 3 volte-
-Ho lasciato il telefono a casa dopo averlo tirato contro la porta per non essere suonato-
-Che reazione eccessiva- dissi ancora turbata.
-Mi dispiace sul serio, non so come sia potuto succedere. Ti ho portato del caffè per farmi perdonare-
-Del caffè? Eri in ritardo e hai perso tempo a farmi un caffè?-
-L'ha fatto Cèleste- Oh.
-E dato che era sveglia non ha pensato di svegliarti?-
-Ha detto di averlo dimenticato-
-Certo...-
-Sei più agitata del solito, non hai dormito bene?-
-Non molto...-
-Brutto sogno?- nervosa cambiai posizione sul sedile.
-Pensa a guidare-
-Chi era quel tipo ieri?- disse dopo due minuti di silenzio.
-Che tipo?- dissi nervosa guardando l'orario sul telefono. Quasi dieci minuti di ritardo.
-Il tipo....tipo. Quello con cui hai ballato-
-Il ragazzo che è arrivato mentre ballavamo noi due?-
-Si, quello- disse "quello" in tono irritato.
-Ah, è un mio amico.-
-Non me l'hai mai presentato in passato-
-Lo conosco da molto poco- risposi brevemente.
-Davvero? Sembravate...molto affiatati.-
-Che vorresti dire?-
-Niente, che è strano, tutto qui.-
-Che intendi per "strano"?-
-Che due ragazzi così affiatati non possono conoscersi da poco tempo- tacque... -o essere semplicemente amici- aggiunse poi stringendo il volante.
-Invece è così e anche se fosse non vedo che problema dovrebbe recarti-
-Nessuno- disse lui velocemente con un sorriso fastidioso.
-Bene, allora guida. Siamo già in ritardo-

Un amore matematicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora