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Che ore sono? Maledizione!

Mi sembra di essere andato a letto da poche ore, anzi, da pochi minuti.

Il piccolo display della sveglia segna le sei del mattino e, come previsto, è troppo presto per alzarsi.

Ma allora perché questo aggeggio infernale sta suonando?

Sono rincoglionito più del solito e faccio fatica a capire che, in realtà, quella fastidiosa musica non proviene dalla sveglia ma dal cellulare.

Dov'è? Eccolo.

Afferro l'apparecchio con le mani cotte dal sonno e sento che mi sta quasi scivolando, ma riesco a mantenere la presa.

Scalcio via le coperte con poco garbo, accendo l'abatjour e, tra le lamentele di mia moglie che mugola indispettita, premo sul tasto verde.

«Davis» dico avvicinandolo all'orecchio e strizzando gli occhi a causa della luce improvvisa.

Amo il buio, senza non riesco a dormire bene, quindi prima di andare a letto mi preoccupo sempre di spegnere ogni LED ed ogni altra cosa luminosa.

La mia camera, poi, si trova in una posizione ottimale, quindi non entra nessun tipo di luce a meno che io non lo voglia.

«detective Davis?» chiede la voce dall'altra parte.

«chi parla?»

«sono lo sceriffo Harrison, della contea di Bredem. Ho un caso per lei»

«come? Sceriffo Harrison, sono le sei del mattino!»

«lo so» replica lui dall'altra parte «è importante»

In questa città fa dannatamente freddo.

Quando ho accettato di correre in aiuto dello sceriffo non avrei mai pensato che mi sarei ritrovato in un gelido paesino collinare con meno sette gradi, altrimenti forse ci avrei pensato due volte.

Dopo aver chiuso la telefonata mi sono preso il tempo di capire se avevo fatto o meno una cazzata, ma poi ho deciso che quell'uomo sembrava disperato e non sono riuscito a rifiutare.

A quanto pare qui è sempre stato tutto molto tranquillo, fin troppo mi vien da pensare.

L'ingresso al paese è segnalato da due cartelli, uno sopra l'altro.

Sono entrambi bianchi (o per lo meno una volta lo erano) e la scritta che vi campeggia sopra riporta le lettere "BREDEM" a caratteri cubitali, solo che sul secondo cartello sono sbarrate da una striscia nera.

Nessun "benvenuti", niente di niente.

«mi scusi» dico fermando una signora tutta incappucciata, nasconde la faccia sotto il cappello in feltro ed è tutta attorcigliata nel suo caldo cappotto di lana «può indicarmi la centrale di polizia?»

La donna mi squadra da cima a fondo e sul suo volto si produce una smorfia di disappunto quando l'occhio le cade sulla mia ventiquattrore nuova di pacca, un regalo di Tania per il mio cinquantacinquesimo compleanno.

«arrivi in fondo e svolti l'angolo, non può sbagliare» risponde infine.

Seguo le sue indicazioni e mi ritrovo ai bordi di una via più larga e trafficata, credo si possa affermare che sia l'arteria principale, anche se non è come quelle che normalmente ci immaginiamo.

Qui è tutto più piccolo e più stretto, le case sembrano una accatastata sull'altra e sono tutte dipinte con colori spenti e poco brillanti. Sto per avere un attacco di claustrofobia.

Una volta girato l'angolo si materializza davanti ai miei occhi un edificio a mattoni rossi con una grande porta a vetri come ingresso.

Davanti all'entrata c'è una specie di rampa e, sotto di essa, sono parcheggiate alcune auto dalle fiancate inconfondibili.

La ragazzetta al front office alza immediatamente lo sguardo quanto sente la porta aprirsi e non si fa scappare l'occasione di ficcare quei suoi occhietti da cerbiatta dentro ai miei.

È molto alta e sicuramente dimostra più della sua vera età, è scura di pelle e ha i lineamenti latini.

Porta una grossa sciarpa ingombrante attorcigliata al collo e un maglione policromato la copre completamente, fin quasi alle ginocchia.

Sulle sue dita sono tatuate alcune lettere e, senza esagerare, la sua faccia assomiglia ad uno scolapasta.

Quanti piercing può contenere il volto di una persona? Sul suo ce ne sono davvero troppi, per i miei gusti.

«salve, sto cercando lo sceriffo Harrison» inizio, poggiando un gomito sul bancone «sono il detective Davis»

«detective? Molto piacere, Robert Harrison» esordisce una voce alle mie spalle «ha fatto buon viaggio?»

Il tizio che mi si para davanti è alquanto singolare: avrà sì e no trent'anni, di altezza media e fisico asciutto.

Porta una divisa beige troppo grande per la sua taglia e un paio di baffi color carota, è sicuramente colpa di quelli se la sua espressione sembra costantemente allegra.

«diciamo che sono sopravvissuto» affermo.

«dov'è la sua squadra?» continua l'uomo dai capelli arancioni.

Se lo avessi incontrato per strada non lo avrei mai identificato come facente parte delle forze dell'ordine, non ha la faccia adatta. Però è un bel ragazzo, quasi quasi gli chiedo se abbia mai pensato di fare il modello per qualche rivista pubblicitaria.

«nessuna squadra, ci sono solo io» rispondo, cercando di tagliare corto «vuole spiegarmi la situazione?»

«venga con me» dice poggiandomi una mano sulla spalla.

Mi conduce di nuovo all'esterno e mi fa accomodare dentro la sua auto puzzolente di sigaro e di cheddar andato a male.

Sparsi qua e là ci sono anche un paio di lattine vuote e dei mozziconi di sigaretta spenti, l'insieme è alquanto raccapricciante.

Mette in moto alzando una nuvola di polvere e, in pochi minuti, siamo al confine del centro abitato, lontani da sguardi indiscreti.

Imbocchiamo un viottolo quasi sterrato, sobbalziamo più volte a causa delle buche sul manto stradale e parcheggiamo in uno spiazzo circondato da alberi, al limitare del bosco.

«che posto è questo?» domando quasi più a me stesso che a lui.

«stia pronto, detective Davis» mi mette in guardia mentre scendiamo quasi in contemporanea dall'auto «non sarà una bella esperienza»

Come se non ci fossi abituato! Ho quasi trent'anni di servizio alle spalle, vorrei dirgli, ma se questa storia è brutta come dice credo che dovrò essere prudente anch'io.

La grande casa è stata circondata da un nastro giallo e, sulla porta mezza scardinata, è stato attaccato un cartello fermato con lo scotch.

«lei non viene?» chiedo allo sceriffo vedendo che non si azzarda a salire i gradini in legno della veranda.

«no, ho già visto abbastanza, grazie» ribatte.

Inarco un sopracciglio.

Se un po' di sangue gli fa quest'effetto forse significa davvero che in questo posto non hanno mai visto niente.

Sospiro e mi infilo i puzzolenti guanti in lattice prima di poggiare la mano sulla maniglia della porta, evidentemente forzata da lui o da chiunque altro si sia preso la briga di venire a controllare che in questo luogo tutto filasse per il verso giusto.

Spingo verso il basso e do un colpo di polso per farla aprire e, appena metto piede nell'ingresso, sono tentato di fare retro front.

«che diamine...»

«sono morti» mi comunica un'agente alle mie spalle, sottolineando il fatto come se non fosse già abbastanza palese. La guardo un attimo per capire se sia seria o meno e, in meno di un secondo, confermo che lo è.

L'occhio mi cade sulla targhetta che ha cucita sulla giacca, c'è scritto "agente Hanna Law".

«me ne sono accorto, agente Law» replico, ma lei continua a guardare dentro e sembra che non senta quello che sto dicendo.

«sono tutti morti» ripete, sembra sotto shock «tutti morti»

Nubi su BredemWhere stories live. Discover now