L'invisibile

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Sento vibrare attorno a me il suono attutito della città ormai quasi completamente addormentata e il silenzio denso di attesa di chi aspetta l'arrivo degli Angeli: così chiamiamo le persone che ogni sera ci offrono un po' di sostegno.

Ricordo ancora la prima volta che ne incontrai uno: mi si avvicinò diversi anni fa quando la mia vita era già andata oltre la sua pagina più lieta lasciandomi indietro e rendendomi ciò che sono anche ora, un invisibile. Non dimenticherò mai quel momento e ripensarci mi riempie di felicità.

Mi stavo riparando dalla pioggia raccolto nel mio vecchio giaccone verde militare sotto i portici di una grande banca in centro. Al mio fianco altri invisibili che, come me, cercavano di riposare in una notte d'autunno che lasciava presagire la durezza dell'inverno che ormai era alle porte.

Ero assorto nel mio silenzio, pensando al nulla; ascoltavo l'incessante ticchettio della pioggia sull'asfalto e mi facevo avvolgere dalla bellezza della mia città che, nonostante il temporale, continuava ad avere il fiero aspetto di una signora non più giovane ma sempre composta e mai stanca dei suoi anni.

“Ciao”, mi disse quella sera Gabriella toccandomi leggermente il cappotto sudicio. Feci un salto e quasi caddi di lato dallo spavento: non mi aspettavo quell'intrusione anche perché non l'avevo sentita arrivare. La guardai spaventato all'inizio ma mi tranquillizzai quasi subito: non ho mai osato chiederglielo ma non aveva, secondo me, più di 25 anni.

Quella sera mi regalò un sorriso reso ancora più bello dal fatto che era il primo che qualcuno mi rivolgesse da diverso tempo. Non lo ricambiai: in quel periodo ero arrabbiato con il mondo intero.  Lei, coraggiosa, si sedette al mio fianco: una giacca a vento scura la avvolgeva lasciando soltanto il volto e le mani scoperte.

“Mi chiamo Gabriella”, continuò. Non avevo tanta voglia di parlare; volevo solo starmene per fatti miei e lei comprese. Rimase lì per un po' rispettando il mio silenzio; poi si alzò. La guardai allontanarsi senza voltarsi indietro e mi chiesi se forse avrei dovuto essere più gentile. Tornai a concentrarmi sul nulla ma con la coda dell'occhio mi resi conto che aveva lasciato qualcosa al mio fianco: era una busta con del tè caldo zuccherato e un panino alla mortadella. Lei non lo vide ma fu in quel momento che ricambiai il suo sorriso.

È passato molto tempo da quella sera e sento di poter dire che Angeli è proprio il nome adatto a quelli come Gabriella. Eccola che arriva anche questa sera, puntuale come sempre.

La saluto alzando la mano e in pochi passi mi raggiunge: “Ciao Marco, come stai questa sera?”

“Non male...” Le rispondo ricambiando il suo sorriso e cercando di usare un tono di voce  convincente. Fa già tanto per me, non voglio che si preoccupi.

“Questa sera ti ho portato dell'acqua e della pasta al ragù appena fatta”, mi racconta soddisfatta mentre mi porge una busta di plastica.

“Grazie, Gabriella. Sei un angelo.”

Sorrido e la guardo negli occhi mentre glielo dico: spero che lei si renda conto che le sono davvero riconoscente.

Sbircio incuriosito all'interno della busta di plastica che mi ha donato: la confezione ancora appannata della pasta sembra presagire una cena con i fiocchi.

La saluto e mi allontano per mangiare tranquillo: assaporo con gusto ogni forchettata, saziando il mio stomaco e anche il mio palato.

Qualche minuto ancora di riposo e decido di rimettermi in marcia: questa sera devo ancora finire il mio giro.

Prendo il carrello e il mio zaino: dentro il primo ci sono solo cianfrusaglie; nel secondo, invece, c'è tutta la mia vita. Lo porto sempre con me e mi dispiace cambiarlo anche se ormai ha fatto il suo tempo.

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