La fine della guerra

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«Cosa ne dici?» gli chiese infine George, togliendo il telo dal tavolo con un solo gesto.

Martin osservò il manufatto sul bancone, con la birra in mano, senza dire nulla, piuttosto sbalordito. Era per quella cosa che il suo amico non si era più fatto sentire nell’ultimo mese?

George gli fece un cenno, invitandolo ad avvicinarsi all’oggetto, e Martin, con solo un po’ di esitazione, lo toccò cercando di saggiarne la consistenza, e provò a spostarlo. Era pesante. Apparentemente di metallo, freddo. La forma era assurda. Ricordava almeno cinque o sei elettrodomestici diversi, fusi insieme. Non riusciva a capire quale potesse essere lo scopo.

«Notevole.» rispose dopo un po’, cercando di dare a quella risposta neutra un calore che non offendesse George.

La luce, in quel piccolo garage, diventato da tre mesi a questa parte una specie di laboratorio, era bianca, intensa e asettica, e sembrava accarezzare quell’oggetto, sottolineandone l’eccentricità.

«Sì, infatti.»disse George, raggiante.«Sì, è davvero splendido! Ci ho lavorato tutte le sere per almeno dieci settimane ma devo ammettere che ne è valsa la pena.» Fece una pausa, guardandosi intorno. «Anche se non ti dico Claire quante storie ha fatto.»

«Immagino...» rispose Martin, senza distogliere lo sguardo dal bancone.

«Ma... ma adesso che è finito penso che mi chiederà scusa.» continuò George.

Martin guardò l'amico con uno sguardo ironico «Stai ancora parlando di Claire?»

George parve riaversi un attimo, e il suo volto, fino a poco prima entusiasta ma inquieto, ritornò per un secondo quello di sempre, riuscendo anche a ritrovare il sorriso. I suoi occhi azzurri erano però così stanchi che sembravano persi altrove, e presto riapparve nello sguardo un’ombra scura che mai Martin aveva visto prima di quella sera.

«Beh, no. » ammise George «Sì, penso che Claire non mi chiederà scusa... ma forse alla fine capirà.»

Martin non disse nulla, ma era chiaro che si aspettava una spiegazione per quella mezza frase.

George alzò le spalle, e sorseggiò la pilsner, prima di aggiungere «Dovevo finirlo. E dovevo farlo in fretta.»

«Dovevi?» chiese l’amico.

«Sì. Dovevo. Ogni giorno che passava sentivo il progetto diventare meno chiaro. Meno reale. Se avessi impiegato ancora un altro paio di settimane, non penso che sarei riuscito a finirlo.»

Martin. Perplesso, chiese «Non capisco. Questo non è il progetto che hai presentato alla Ruffin, e che hai depositato all'ufficio brevetti in marzo?»

Ma guardando l'oggetto che troneggiava sul vecchio bancone di legno, si rese conto di sapere già la risposta.

«Sì... no. Cioè. Quando sono partito, la mia idea era di creare un prototipo di quella macchina utilizzando materiale d'uso comune. Ferro al posto della lega di varinox. Plastica al posto di quei polimeri che abbiamo studiato. Volevo vedere se era possibile diminuire i costi di realizzazione. O forse ne volevo uno fatto con le mie mani, non so. Non mi ricordo perché mi sono messo a lavorarci su. Ma poi, beh, mentre lavoravo mi veniva in mente modifiche.»

«Modifiche?»

«Sì. Non necessariamente miglioramenti. Modifiche. Un pezzo così, al posto di un pezzo cosà. Un circuito di tipo X al posto di quello di tipo Y. Cose del genere. Cose estremamente interessanti. Una nuova idea ha cominciato pian piano a prendere forza dentro di me, e io mi sono limitato a seguirla. A realizzarla.»

Martin diede di nuovo un occhiata al manufatto. Cos'era, si chiese? Lui non sapeva a cosa stava originariamente lavorando George (George lavorava per l'esercito, e lui non faceva mai domande), ma sapeva che negli ultimi anni il suo amico aveva realizzato grandi cose per le loro forze armate. Sistemi di puntamento. Rilevatori di movimento. Segnalatori. L'unica cosa che George si era sempre rifiutato di fare erano le armi.

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