I. Falibor

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La villa dei Ludansel di Vorenn era l’unico posto in cui Elydia ricordava di essere vissuta. Dall’età di quattro anni, zio Limak l’aveva presa a vivere con sé. Era cioè diventata una sua proprietà, come i vasi di porcellana e le statue di marmo rosa, come la governante, la cuoca e il resto della servitù, di cui a stento aveva imparato i nomi. Conosceva bene invece quello del suo Maestro, Falibor.

“Non potevo rifiutare un ordine del re,” si giustificò il Mago davanti a Limak.

Lei stava origliando la conversazione con la chiaroudienza. Da piccola non le piaceva la Magia, anzi la odiava.

“Il Dono va coltivato,” le aveva sempre detto Falibor, spingendola a provare e riprovare. Aveva avuto una pazienza infinita con lei. E ora se ne voleva andare?

No, no, no! Non lo permetterò!

Elydia era l’unica che potesse fargli cambiare idea, così si teletrasportò nello studio dello zio. Un turbinio nell’aria annunciò il suo arrivo. “Quando pensavate di dirlo a me?” chiese, mentre la sua figura era ancora attraversata da un vortice di colori.

“Ely cara,” disse Limak, chiamandola col diminutivo che usava quando era bambina. “Sto cercando di convincere il tuo Maestro a rimanere.”

Falibor le lanciò un’occhiata in tralice. “Vorrei tanto, ma non posso. Sono stato insignito dal re della carica di Mago di Corte. Devo recarmi a Yant domani stesso.”

“Ti hanno concesso solo un giorno per salutarmi?”

Forse era questo che le doleva di più. Quell’uomo non le aveva insegnato solo la Magia: l’aveva resa donna.

Il Mago chinò la testa. “L’apprendistato di Lady Elydia può ritenersi concluso.”

Limak allargò le braccia e sollevò le folte sopracciglia, come a dirle che non poteva competere con il prestigio di quell’incarico, non importava quanti soldi avesse offerto al Mago. Pensava di poter comprare qualunque cosa lo zio, come quel meraviglioso pappagallo ilyn; era costato una fortuna, ma se fosse riuscito a insegnargli a parlare, l’avrebbe rivenduto con profitto.

Quella notte Falibor non venne da lei.

—“Perché?” gli chiese mentalmente.

Le aveva insegnato la comunicazione telepatica solo di recente; l’aveva sempre ritenuta una cosa troppo intima, ancor più che fare l’amore.

—“È meglio così. Non è il ricordo che voglio lasciarti. Io sono stato il tuo Maestro, anzitutto. Non dimenticarlo mai.”

Come avrebbe potuto?

***

Era stato lo zio a convincerla, non appena lei aveva manifestato il Dono, ovvero subito dopo la morte dei suoi genitori. Limak aveva usato frasi del tipo “ti divertirai un mondo!” e “puoi smettere se non ti piace”– tutte espressioni che fanno presa sull’immaginario dei bambini. Così la sua educazione era stata affidata al Maestro. Forse si faceva chiamare così per questo.

La difficoltà maggiore che lei aveva avuto da piccola era stata mantenere la concentrazione, cosa fondamentale per un Mago che si rispetti. Ma era piccola, distratta e, in tutta onestà, anche poco interessata.

“La concentrazione è l’inizio e la fine di ogni incantesimo,” le aveva detto Falibor il giorno in cui avevano iniziato le esercitazioni pratiche.

Lei aveva distolto lo sguardo, annuendo. Si sentiva impotente quando lui la guardava così, attraverso quegli occhi sottili. Erano come lui: verdi come la primavera, ma gelidi come l’inverno.

Odio la MagiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora